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5.3.19

Captain Marvel (2019)
di Anna Boden e Ryan Fleck

C’è molto da raccontare all’inizio di Captain Marvel. Non solo dove siamo e cosa stia accadendo, visto che il film inizia in media res (molto gira intorno a dei ricordi poco chiari su cui indagare), ma un intero grande troncone di universo Marvel che al cinema non era stato ancora affrontato davvero, quella parte di storie dello spazio che riguardano gli alieni Skrull e Kree. Nulla di eccessivamente approfondito ma per la prima volta queste razze ci vengono introdotte per bene. È la ragione per la quale con ben poca grazia il film lavora molto di exposition, mette cioè le tante e complicate spiegazioni del caso in bocca ai personaggi in modo che se le “ricordino” a vicenda e così le spieghino agli spettatori.

A farlo sono principalmente Jude Law e Brie Larson, livelli diversi della gerarchia militare, presto presi in una missione che li dividerà, dando il via all’intreccio vero e proprio e quindi alla origin story di Captain Marvel che, curiosamente, già all’inizio fa sfoggio di una parte dei suoi poteri. È questo piccolo trucco, per quanto non portato proprio con grande raffinatezza, il segreto della presa di un film che per il resto si muove in maniera molto classica rispetto agli standard Marvel. Tra ricordi e tempo presente la protagonista ha già quel che serve per essere una supereroina ma cerca di capire chi è davvero. Come insegnato dall’alfiere dell’universo rivale, Superman, il punto di essere un eroe non è tanto possedere i poteri ma avere consapevolezza di chi si è.

In questo modo Captain Marvel segna anche il momento in cui, a 11 anni dal primo Iron Man e in ritardo rispetto al resto di Hollywood, la Marvel colma una lacuna ormai evidente e porta al cinema la prima protagonista femminile realmente importante, in una storia che inizia con la frase “Non permettere alle emozioni di scavalcare il tuo giudizio” e che è centrata sul ruolo dell’emotività nell’agire della protagonista, zavorra o segreto della sua forza.

Il percorso di scoperta si svolgerà nel 1996, a partire da un atterraggio di fortuna sulla Terra, dentro un Blockbuster (possiamo cominciare a considerare la gag del Blockbuster-che-non-c’è-più ufficialmente banale?) e sarà tempestato di riferimenti agli anni ‘90 smaccati e a pioggia. Non dosati bene ma appiccicati con grande evidenza, spesso leggermente fuori tono come del resto capita con le canzoni. Se James Gunn per I Guardiani Della Galassia aveva recuperato dei successi dimenticati degli anni ‘80 con grande capacità di abbinarli a scene spaziali, qui invece tutto il campionario della musica più nota e abusata dei ‘90 non riesce a suonare così ben accoppiato.

Lo stesso vale per il trucco degli Skrull, retrodatato agli anni ‘90, tutto analogico ma non particolarmente efficace, anzi in certi punti un po’ straniante e decisamente meno invisibile degli equivalenti digitali cui siamo stati abituati. Sensazione che paradossalmente è molto meno forte nel Samuel L. Jackson ringiovanito che occupa tutto il film, uno sforzo di computer grafica senza precedenti per durata e qualità, che non si può dire dotato della stessa identica ampiezza espressiva di un volto reale ma che indubbiamente ci va molto vicino.
Sono dettagli che non fermano il treno in piena del film. Tuttavia per queste ragioni Captain Marvel, al netto della consueta impeccabile godibilità dei film Marvel e della maniera perfetta in cui si incastra nella continuity del MCU (cambiando tanto di quel che già sappiamo), più di altri film dà l’impressione di aver risposto a molte diverse indicazioni di produzione (la nostalgia, l’uso di effetti analogici, una sfacciata ed esplicita metafora politica…) in maniera più smaccata che raffinata.

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