Una scomoda sensazione cresce lungo tutta la visione di Peppermint.
La trama è semplice: una madre vede massacrati di fronte ai suoi occhi figlia e marito, sopravvive per miracolo ma una giustizia corrotta assolve i colpevoli e vorrebbe internare lei. Scappa, diventa una combattente di MMA e cinque anni dopo torna per fare giustizia, cioè una strage di criminali. È il family revenge movie classico con tutte le sue dolci implausibilità e le sue esplosioni di violenza piena d’affetto frustrato dalla morte.
A Peppermint non si può nemmeno imputare una realizzazione scadente, perché Pierre Morel lo gira bene, a regola d’arte, certo non è fatto per impressionare o per stagliarsi quanto ad unicità, ma funziona. Jennifer Garner è come sempre credibile e al netto di una sceneggiatura decisamente non precisa, non curata né inattaccabile non viene lesinata né violenza né quella patina di rude e spiccia semplicità che caratterizza il genere. Eppure qualcosa non va e quel qualcosa è proprio il ruolo protagonista.
Questo tipo di film nasce per mettere in scena la relazione tra l’uomo e il suo retaggio animale, cosa ci vuole per far scattare una persona normale facendo pressione sul ruolo ancestrale di protettore della famiglia. Siamo persone civili ma nelle giuste condizioni perdiamo ogni controllo.
Sono film che mettono in scena una maniera primitiva di sfogare istinti giustizialisti ed essere il maschio della specie. Qui invece la protagonista è una donna ma non c’è nulla che possa adattare la storia a questo cambio di sesso. Non è mai un buon segnale quando puoi far interpretare il protagonista ad una donna invece che ad un uomo senza toccare nemmeno una riga della sceneggiatura. Del resto i modelli migliori di azione al femminile hanno tutti conflitti adatti a sé, da Nikita a Katniss Everdeen, sono donne che ragionano da donne con problemi da donne in un mondo in cui morire è un attimo.
Succede così che questo action movie generico e molto violento abbia al centro un essere senza sesso, che ha problemi universali e generici, buoni per tutti, così vaghi da non suonare mai concreti. E dire che la parte più interessante di questo momento del cinema invece è proprio la possibilità, tramite il nuovo ruolo della donna, di rivedere, evolvere e cambiare i generi consueti aprendoli a possibilità inedite.
Peppermint è la negazione di tutto questo, il lavoro minimo su un gender swap inevitabile, messo in scena rifiutando di affrontare il problema, pensando che uomo o donna non sia molto diverso, che i due sessi non abbiano posizioni diverse nella società e quindi nodi irrisolti o questioni differenti. Il risultato inevitabile è il minimo interesse per una trama d’azione in cui un fantoccio ne fa fuori altri.
In tutto questo l’impressione è che Pierre Morel (non a caso lo stesso regista di Io vi troverò, il family revenge movie fondamentale dei nostri anni) si dimostri un mestierante onesto, condotto da una sceneggiatura tempestata di terribili buchi verso un film incolore.
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