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15.3.19

Triple Frontier (id., 2019)
di J. C. Chandor

Ci mette 40 minuti Santiago “Pope” Garcia, dopo che un’operazione ad alto rischio nel Sudamerica ha portato un’informazione cruciale, per radunare la vecchia squadra di contractor, ex soldati dei corpi speciali che si danno al privato. Rimangono 90 minuti di film per mettere a punto il piano, eseguirlo e cercare di sopravvivere alla sua esecuzione (e ce ne sarà bisogno). Sono anni che il boss della droga Lorea si nasconde con la sua fortuna ma Pope ora sa dove si trovi, lo sa solo lui che gli dà la caccia da tantissimo tempo. L’idea è andare lì, fare un lavoro pulito, stanarlo, farlo fuori e scappare con i soldi che nessuno saprà essere in mano loro. I ragazzi della squadra sono tutte persone oneste, militari in pensione che non hanno mai rubato ma dopo una vita di omicidi e “azioni contrarie alla convenzione di Ginevra” per conto del governo si trovano tutti con un pugno di mosche. È ora di prendersi quel che gli spetta.

Triple Frontier era un film che doveva girare Kathryn Bigelow (l’ha scritto Mark Boal, suo abituale collaboratore) e si vede, ma negli anni è finito nelle mani di J. C. Chandor, e lì si trova perfettamente a suo agio. Il suo cinema essenziale, studiato e asciutto è perfetto per questa storia di ex-militari che si imbarcano in quella che a tutti gli effetti è una rapina a livelli altissimi di difficoltà.
J. C. Chandor ha la perversione di lavorare su dettagli demoniaci e possiede la rara dote di saper creare tensione senza urlare. Questo gli consente di tenere un ritmo alto senza stordire mai. Con grande calma e un controllo deciso su ogni scena è capace di far emergere l’incalzare delle situazioni tramite piccoli accorgimenti, nessuna scena madre, nessuna scoperta improvvisa o colpo di scena clamoroso. Tutto viene annunciato con calma (anche lo spuntare di un uomo armato alle spalle dei protagonisti non è un colpo ma una lenta comparsa) perché è sempre più importante la sua conseguenza.

C’è una giungla, come promesso fin dall’inizio, ma ci saranno anche le montagne, le pianure e tantissime location non facili da attraversare, perché J. C. Chandor si esalta nel rapporto con i paesaggi, nei mari in tempesta di All Is Lost (il suo folgorante bigliettino da visita al mondo dopo la circolazione più ridotta di Margin Call) o nella New York del 1981 di A Most Violent Year. I confronti tra i 5 protagonisti avvengono sempre in luoghi importanti, in anfratti clamorosi o scenari che gli donano un valore.

Ma alla fine quello che davvero colpisce di questo action movie dall’azione moderata e dalle decisioni incredibili da prendere è come il confine morale venga spostato di continuo. Indispensabile a questo scopo Oscar Isaac, attore che non smette di venire consacrato dai film cui prende parte, che qui sfodera uno suo sguardo assetato di soddisfazione, poi di denaro e poi di moralità. Perfetto Ben Affleck, con la sua recitazione minimalista che lavora su microvariazioni di espressione che mettono in scena il bisogno, la paura, la crisi. Indiscutibili addirittura anche Pedro Pascal e Charlie Hunnam, pedine decisive di un film il cui obiettivo ultimo (come spesso avviene nel cinema maschile) è mostrare cosa sia necessario per essere uomini. Il pragmatismo del tornaconto lascia presto il posto a scelte controproducenti ma decisamente più necessarie, sacrificare tutto per fare quel che va fatto. L’unico lieto fine possibile (ed è bellissima l’ultima scena in questo senso) è l’essersi dimostrati uomini davanti agli altri.

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