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14.3.19

Momenti di trascurabile felicità (2019)
di Daniele Luchetti

Dopo aver passato un’ora e mezza con un persona così fastidiosa che già 10 minuti sarebbero troppi, l’arrivo dei titoli di coda è una liberazione.
Autoindulgente ma senza il fascino della faccia da schiaffi, dell’antieroe, del bastardo carismatico o dell’anticonformista, Paolo è un uomo remissivo che vive con mollezza i propri difetti e il film lo guarda con tenerezza e simpatia. Quando all’inizio, con l’aria lenta e l’espressione fissa di Pif, afferma di passare sempre con il rosso in un certo incrocio perché tanto lo sa che quello è l’attimo giusto e un camion lo investe in pieno siamo già contenti, anche se lo conosciamo da meno di 5 minuti. Morto finisce in paradiso, dove finirà di rivelarsi ai nostri occhi come l’uomo medio nell’accezione peggiore.

In paradiso, salterà fuori un problema burocratico (la parte più divertente, grottesca e ironica del film, l’unica davvero riuscita) per il quale avrà diritto a tornare sulla Terra ma solo per un’ora e mezza. Il contrasto che anima Paolo per il resto del film quindi è di riuscire a sfruttare al meglio quei 90 minuti (che poi è la durata del film), godersi tutto della sua vita (moglie, figli, amici, calcio), ma non è così facile se gli altri non sanno che stai per morire. Questo contrasto tuttavia non è mai avvincente perché non è affrontato con un piglio combattivo o insolenza ma con mollezza. Non combatte davvero Paolo, non condanna, non si condanna, non lotta, accetta un po’ tutto e tutto tollera, si rifugia nei ricordi e li mescola con il presente. È insoddisfatto ma non è un problema. In fondo.

Il film non potrà essere salvato di certo da Pif, non da Renato Carpentieri (anche se per la prima volta, in questo ruolo di burocrate del paradiso la sua consueta teatralità non lo rende fuori luogo, anzi!) e nemmeno dall’incredibile grazia di Thony, un’attrice dall’espressività eccezionale che non necessita di recitare sopra le righe per dimostrarlo e che il cinema italiano è sempre sul punto di scoprire definitivamente ma la cui consacrazione è continuamente rimandata. Fosse stata lei la protagonista, quest’attrice che ha la rarissima caratteristica che più la si inquadra da vicino più regge, e Pif la spalla, il film almeno avrebbe avuto un’altra spinta, un’altra tensione! Nemmeno la sua presenza può giustificare un film così indulgente con il suo protagonista e quindi con se stesso, così apologetico da trasformare l’ossessione bambinesca per le piccole cose e i piccoli piaceri di Amélie Poulain in irritante infantilismo tollerato e in certi punti anche vagamente ammirato.

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