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22.3.19

Un viaggio indimenticabile (Head full of honey, 2019)
di Til Schweiger

Una storia tra nipote e nonno prevede sempre che i villain siano i genitori.
Partendo da quest’assunto quasi matematico, applicato alla lettera con una scrupolosità che ha quasi del doloso, Til Schweiger crea una gigantesca e lunghissima apologia del nostro passato ambientandolo nel presente. In primis questo sarà incarnato incarnato dagli anziani (tutti, dal primo fino all’ultimo che compare nel film, personaggi positivi), ma anche l’elogio dello strano e del fuori dai canoni (ma con amore, s’intenda!) è associato al fascino d’epoca che si batte contro il mondo omologato moderno, inquadrato e senza cuore. Le opposizioni sono chiare e sono queste, le armi con cui combatterle invece sono i controluce, le calze (che oggi sono effetti digitali), le margherite e una impensabile moda anni ‘30.

Un Viaggio Indimenticabile è infatti ambientato ai giorni nostri (ci sono dei telefoni cellulari ad assicurarcelo, altrimenti non sarebbe facile capirlo) ma è come se fosse una distopia, una specie di presente alternativo in cui tutto è in stile anni ‘30, anche i treni (a vapore!!), le tute degli inservienti o l’atteggiamento dei concierge.
In questo film in cui una luce smielata trasfigura ogni immagine in sogno, ogni gesto in atto d’amore, Nick Nolte con degli strani riccetti e un’ammirabile tenacia nella follia è un nonno malato di alzheimer e quindi non presente con la testa si trasferisce a vivere con la famiglia del figlio (un Matt Dillon inusualmente composto ed ordinato), si scontra con la moglie di lui ma lega ancora di più con la nipotina. Quando lei capirà che è imminente il suo spostamento in una casa di cura farà in modo di scappare insieme a Venezia. I genitori li inseguiranno. Il viaggio sarà un trionfo di bontà che entra da tutti i finestrini e si manifesta ad ogni sosta.

È evidente che la linea di fondo di questo film è l’idea che la vera maniera per essere felici e vivere la vita a pieno sia di godere ogni momento con l’ingenuità, il caos e l’anarchia dei bambini. Eppure l’impressione è che nonostante lo affermi di continuo, in fondo il film non ci creda, che lo sostenga perché è quel che gli tocca dire. Lo si capisce da come insiste con un’estetica falsissima da spot anni ‘80 e ‘90 dalla luce rassicurante, da come esageri in un montaggio incomprensibile, con continui stacchi, da come misteriosamente si rifiuti di usare i totali nelle scene con diversi attori ma stacchi ogni secondo su un volto diverso e infine lo si capisce quando veramente sconfina nell’ossimoro puro, eleggendo le suore a modello da cui imparare a vivere una vita piena e soddisfacente.

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