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21.5.19

Lighthouse (id., 2019)
di Robert Eggers

Persona di Ingmar Bergman, reimmaginato da un marinaio suggestionato da miti e mostri della tradizione marina. Così si presenta Lighthouse, l’atteso secondo film di Robert Eggers dopo The Witch, il film che doveva confermarlo e invece rimanda l’appuntamento con la grandezza eccedendo in ricalco dei punti di forza del film precedente. Senza molto coraggio infatti Eggers gira “The Witch al mare”, usando una fotografia in bianco e nero e un’immagine in 4:3 ma sostanzialmente ripetendo struttura e trovate del film che l’ha fatto esordire.

Aperto come Ai Confini Del Mondo di Michael Powell, con un’isola ingrata, un mare in tempesta, vento e uomini che la percorrono a piedi cercando non di piegare l’ambiente selvaggio alle loro esigenze di vita ma di vivere in accordo a quelle asperità, si tratta di una storia di custodi del faro, non diversa per epoca e tipi di personaggi da The Vanishing, in cui due uomini uno più anziano ed esperto e uno più giovane e ingenuo devono convivere per 4 mesi lontano da tutto senza impazzire. Non accadrà e la direzione che prenderà la follia sarà quella delle visioni e delle pulsioni elementari che diventano violenza, sopraffazione, terrore e metafore psicologiche. Ci sono donne ingannevoli, sesso dannoso, tentacoloni penetranti, masturbazioni davanti al faro e un desiderio di connessione con tutto questo mondo di sesso omo ed eterosessuale che non è mai dichiarato ma sempre implicato. Ogni suggestione di lotta, uccisione e amore va a finire lì.

Dopo i boschi e la terra, tocca al mare e alla roccia svelare i propri miti ancestrali, ma poco cambia se non che stavolta non è chiaro cosa siano visioni e cosa realtà, cosa faccia impazzire i due uomini isolati, cosa materializzi le loro paure e superstizioni. Tutto quello che era apprezzabile in The Witch si trasforma in dialogo insistito, tutto quello che era suggestivo e che usava la tradizione per fare horror qui diventa una specie di viaggio onirico allucinato dall’alcol. Così si perde sia il senso di paura e di incombente minaccia (l’ambiguità tra ciò che crediamo non esistere e ciò che speriamo invece non esista), sia l’originalità di Eggers che annaspa in dialoghi lunghi e ripetitivi nel tentativo di far specchiare i personaggi, di farli ribaltare l’uno nell’altro, riuscendo solo a comporre talvolta immagini suggestive tra Poseidone e la Medusa che però non entrano mai in contatto con il film e rimangono “solo” bei quadri.

Willem Dafoe domina Robert Pattinson, lo fa lui e lo fa il suo personaggio, detta tempi e modi, si trasforma in Poseidone quando serve e si scioglie in dolcezze e ironie quando è impossibile aspettarselo. Di fatto crea sia un ritratto che rimanda all’iconografia del tempo, sia un rapporto che somiglia ad una relazione sentimentale, fatta di vicinanza e lontananza, di furiose e tempestose litigate seguite da una pace tenera. Tutto quello che ha senso nel film viene da lui ma non basta.

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