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17.5.19

The Dead Don't Die (id., 2019)
di Jim Jarmusch

CONCORSO
FESTIVAL DI CANNES

Una buona parte della filmografia di Jim Jarmusch, specialmente negli ultimi anni, si rivolge ad un club. Sì tratta di un club per essere membri del quale bastano certi consumi culturali (non difficili: la musica rock classica, i grandi filmoni della storia del cinema, i caposaldi della letteratura) e certe idee politiche (democratiche). Nella visione di questi film di cui The Dead Don’t Die fa parte, questo è il club dei migliori, delle persone che meritano di vivere, di quelli che sono realmente umani, di quelli con cui si può parlare. Chi sta dall’altra parte dello spettro e non si identifica nel club è da odiare e prendere in giro.

The Dead Don’t Die parla ai membri del club e solo a loro, fa continui ammiccamenti e battutine che possono cogliere, parte sempre dal presupposto che ci sia una comunanza di idee tra il film e il suo pubblico (“possiamo fare certe ironie o dire certe cose perché, lo sappiamo, la pensiamo tutti nella stessa maniera in questo circolo no?”). Si tratta di una posizione ideologica molto facile che pettina il proprio uditorio e gli propone una pappa scodellatissima per confermare tutto quello che già pensano, non mettere in crisi nessuno ma crogiolarsi nell’idea di essere i più belli, i più intelligenti, i più meritevoli. Siamo noi che rimaniamo vivi nell’invasione zombie, siamo noi che con questo genere basso di prendiamo una vacanza dai nostri consumi culturali elevati. Come una carnevalata con Iggy Pop, Bill Murray e Tilda Swinton.

C’è un tale sbrodolarsi in complimenti indiretti in questo film su una placida cittadina marginale e piccola, nella quale (come nel resto del mondo) i morti escono dalle tombe (non corrono come gli zombie moderni ma escono dalla Terra come in Romero), un tale compiacimento nel ripetere che è colpa delle violenze perpetrate al pianeta e un tale tasso di ammiccamenti facili (Steve Buscemi con un cappello rosso “Make america white again”) che è davvero difficile sostenerlo. Almeno riesce difficile per chi crede che non basti vedere rappresentato quel che si pensa e si crede ma che un film (se ha delle ambizioni) dovrebbe creare problemi, mettere in crisi, stimolare un dubbio e sfidare lo spettatore, oppure (se non ha ambizioni intellettuali) creare una grande storia che coinvolga, diverta, commuova o preoccupi.

Jim Jarmusch non è minimamente interessato a fare niente di tutto ciò, proprio non è interessato a fare un film, e ovviamente non gli interessano gli zombie veri e propri (gli interessa usare le idee di Romero, anche quella di L’Alba Dei Morti Viventi per la quale gli zombie ripetono quel che facevano in vita, per i suoi fini), ma non gli interessano nemmeno i propri personaggi, non vuole costruire una storia, non vuole imbastire relazioni o raccontare persone, solo fare piccole gag stucchevoli.
La surreale evoluzione del personaggio di Tilda Swinton (per il quale ruba anche idee da Tarantino) e il gioco del metafilm (i personaggi sanno di essere in un film) costituiscono poi il club dentro al club, rivolto solo a chi conosce i film precedenti di Jarmusch e il suo rapporto con gli attori. Perché c’è sempre una cerchia più stretta, un’élite più élite delle altre.

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