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1.2.20

Diamanti Grezzi (Uncut Gems, 2019)
di Benny e Josh Safdie

È probabile che non ci sarà quest’anno un film al tempo stesso così classicamente newyorchese e così intimamente moderno, capace di unire l’austerità religiosa della scuola italoamericana del cinema di New York (Abel Ferrara, Martin Scorsese) con l’astrazione tutta West Coast di Paul Thomas Anderson. Diamanti Grezzi è un passo in avanti gigantesco rispetto a Good Time per i fratelli Safdie. Con questo film oltre all’interesse conquistano anche teste e cuori degli spettatori, oltre alla strana atmosfera a metà tra crimine e grottesco riescono anche a disegnare una parabola più grande, a raccontare idee universali e mettere in crisi le aspettative dello spettatore in un tornado di eventi imprevedibili.
C’è proprio in questo film in una chiarezza d’intenti e una determinazione nel raggiungere l’obiettivo assenti in Good Times, che invece vagava facendosi distrarre da tutto mai sicuro, sempre incerto.

Sarà la presenza magnetica di Adam Sandler in funzione di sacco che tutti riempiono di pugni ma è difficile non pensare alla foga incalzante con la quale Ubriaco D’Amore raccontava le fatiche del suo protagonista in una famiglia che non lo aiuta. Li erano sorelle oppressive e una ricerca maldestra dell'amore. Qui sono cognati violenti e una ricerca maldestra della ricchezza. Questo ebreo che commercia in pietre preziose che forse ha fatto il colpo della vita aggiudicandosi un opale rarissimo che catalizza l’attenzione di tutti (incluso Kevin Garnett, il giocatore di basket, convinto che quella pietra possa influire positivamente sul suo gioco) e potrebbe valere milioni ma deve ancora riuscire a compiere l’ultimo miglio e concretizzare l’investimento, non può non ricordare i travet di New York, piccoli esseri meschini dalle esistenze difficili, stretti nei gangli di una città il cui passo è impossibile da seguire, sempre più veloce, rutilante, imprevedibile e fagocitante di te.

Sandler con quei denti finti e quell’atteggiamento sempre inutilmente positivo e follemente ottimista dà grandissimo dinamismo ad un film inarrestabile che potrebbe anche sembrare realizzato tutto in un'unica inquadratura, tanto il passo è forte, gli eventi ben concatenati e legati da un preciso rapporto causa effetto che fornisce l’impressione di una discesa verso la propria fine. Tra paranoia e droga, tra un prologo da Esorcista per un film che invece sembra Il cattivo tenente, si respira proprio un feeling anni ‘70 evidente. È l’idea di una maledizione oscura che incombe su quest’omino destinato a soffrire, anche se nessuno pronuncia quella parola o accenna a quel concetto. La pietra forse è maledetta, di certo il suo luccichio porterà il commerciante senza cuore alla resa dei conti con le proprie ambizioni. È il Macguffin perfetto.

Ma non è solo questa chiarezza di scrittura a rendere Diamanti Grezzi la prima scoperta del 2020 (merito a Netflix di averla presa per sé), il film afferma la sua sostanza soprattutto a partire da un comparto tecnico incredibile. Dalla fotografia in 35mm granuloso di Darius Khondji ad un lavoro sul sound design da perdere la testa. Dialoghi che si sovrappongono in stile Altman proibiscono ogni chiarezza riguardo quel che viene detto, mentre sono i corpi a parlare per le persone, le parole sono sempre bugie da venditore, menzogne da giocatore d'azzardo, assurdità da drogato di gioco, mitragliate di parole ripetute ossessivamente.
Diamanti Grezzi è la fatica di essere vivi, la condanna della vita metropolitana, la maledizione di aver voluto di più per se stessi.

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