Che Diaz sia probabilmente il film italiano d'impegno civile più cinematografico tipo degli ultimi 20-30 anni è abbastanza obiettivo, l'unico a prendere le distanze quanto basta dal fatto narrato per cercare di costruirci intorno un film la cui struttura generi senso autonomamente. L'unico a cercare la contaminazione con dei generi.
Per farlo Vicari decostruisce temporalmente il racconto, passa più volte sugli stessi momenti per affrontarli da punti di vista diversi, si appoggia a tratti a qualche stereotipo e qualche frase fatta (davvero andava tenuta la moralina finale tra manifestante e negoziante genovese?) e applica in pieno la struttura del cinema catastrofico per traslare la realtà nella finzione. Perchè Diaz è stato girato seguendo gli atti dei processi (le violenze perpetrate si sono svolte come le vedete) è comunque finzione, e l'aderenza processuale suona più come un fattore impressionante da film horror ("i fatti che vedrete sono realmente accaduti") che come un'ammissione documentaristica. E grazie al cielo.
Del catastrofico Diaz ha tutto. Un finale noto, protagonisti dal destino comune e un pubblico le cui aspettative inevitabilmente tendono all'impennata di tensione e violenza che sanno essere il centro della storia. Per questo Vicari gioca un po' al gatto col topo e rimanda molto il momento pregnante che dà il titolo al film. Alla Diaz, ma anche a Bolzaneto, il film paradossalmente passa molto poco tempo (forse meno della metà della sua durata), seguendo i suoi personaggi nelle peregrinazioni che li porteranno lì o che faranno in modo che evitino di essere parte della mattanza.
Così si compie il catastrofismo filmico anche a livello di personaggi, tutti simbolo di una categoria (il black bloc, il pensionato, il giornalista, il manifestante pacifico, lo straniero, l'organizzatore, il poliziotto) e tutti dotati di una storia personale che si inserirà nella storia più generale, influenzata dalla tragedia che di lì a poco accadrà.
E' rispettabile la scelta di non indagare le cause che hanno portato all'accaduto (troppo vicini i fatti, troppo poco chiare le acque, troppo complesso affrontare un fatto particolare in un evento molto più grande e dotato delle proprie complessità come il G8), meno semmai quella di sorvolare (tutto sommato) sulla violenza. Perchè se in Diaz indubbiamente c'è molto sangue e molte botte è anche vero che non c'è la dilaniazione fisica che ti aspetteresti da un film che fa questa scelta. Quantomeno non quella che ti aspetteresti da Daniele Vicari, che già in Il passato è una terra straniera si era mostrato interessato al modo in cui un corpo tumefatto e piegato dalla violenza sia in grado di parlare di qualcosa di più alto e intimo.
Sorvolare sulle motivazioni generali e concentrarsi sulla mattanza, cioè sull'isteria, l'insensatezza e "l'assurdità che scaturisce dalla banalità" è una vera grande scelta di cinema, che però a tratti sembra non essere seguita fino in fondo. I volti degli occupanti della Diaz, con le mani in alto, pronti all'arrivo della polizia, poco fiduciosi del fatto che servirà a risparmiarli e terrorizzati dalle urla inumane che sentono venire dai piani inferiori, è un'immagine che si vorrebbe essere il simbolo di quello che il film è (paura, sfiducia verso l'autorità, insicurezza e totale destabilizzazione anche dello spettatore), invece è uno dei pochi momenti isolati di un film molto buono che poteva essere ottimo.
1 commento:
Mi pento, a posteriori, di essere andata a vedere Allen invece che questo. Ma rimedierò sicuramente.
Ale55andra
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