Pensato e realizzato per la televisione ma passato da noi al cinema (succede anche questo), il nuovo documentario di Martin Scorsese parte dal più interessante dei presupposti, la storia della vita di George Harrison, una delle figure più in ombra dei Beatles eppure interessantissima proprio per il rapporto con il gruppo e poi per la carriera solista.
Però come appare evidente nella seconda parte dei 208 minuti di questo documentario che la televisione ha proposto diviso in due e che va in forma integrale al cinema, a Scorsese non è tanto la musica ad interessare.
Se nel primo segmento si racconta con dovizia di foto inedite, grandi idee di montaggio e un punto di vista particolare la carriera dei Beatles, senza un'eccessiva concentrazione su Harrison, nella seconda invece dalla separazione in poi vengono dimenticati gli altri membri e si comprende che la chiave di lettura della prima parte non è una generica "storia nascosta del gruppo", quanto una storia che ponga l'accento sulle componenti di fama, eccesso, foga, creatività e frenesia, per dare l'idea di come sia diversa la "seconda vita".
Nel post Beatles a dominare sono la religiosità e lo spiritualismo indiano, oltre ad una forte creatività (la stessa che la vita nel gruppo tarpava) e l'esplorazione di moltissime esperienze diverse.
A Scorsese, al solito, interessa come l'ingerenza nella vita, cioè nel "material world" di un'idea più alta (sia o non sia reale) che corrisponde alla religione, possa cambiare tutto. Harrison rivolta come un guanto la propria vita non tanto fattualmente quanto spiritualmente, e in meno di 5 anni non è più la stessa persona. Lo spiritualismo e quella visione dei rapporti e del proprio posto nel mondo lo rendono diverso.
E' incontenibile e commovente lo sforzo con il quale Scorsese a forza di montaggio (assente inspiegabile Thelma Schoonmaker) cerca di rendere visivamente ed emotivamente lo sforzo interiore di diventare qualcun altro e ricominciare una vita quando si è a quel punto.
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