È un'opera pulitissima Selma. Obbediente, fiduciosa, timorata di Dio e animata da un vento di corretto umorismo per alleggerire i momenti più drammatici e rendere comunque lo svolgimento mai eccessivamente squassante per nessuno. Nonostante racconti della conquista dei diritti civili da parte del movimento capeggiato da Martin Luther King (per la precisione il braccio di ferro con Lyndon Johnson e le marce da Selma a Montgomery per ottenere per legge che il diritto di voto per i neri fosse fatto rispettare), lo stesso il film di Ava DuVernay non intende offendere nessuno, identifica dei nemici talmente universali e spregevoli da far in modo che nessuno (nemmeno chi ancora è animato da strisciante razzismo) si possa identificare. E alla fine assolve anche la politica.
Con Oprah Winfrey a sostenere tutta l'operazione, a produrre e a recitare (in un ruolo ovviamente troppo presente), il film è un'elegia della non violenza, della giustizia e dell'insopprimibile sete di uguaglianza di un popolo che non ha nessun timore a definirsi "come nessun altro", una sarabanda di valori positivi ben esposti e raccontati con il sentimentalismo corretto, misurato e delicato che è lecito aspettarsi. È un racconto fatto da vincitori (Oprah Winfrey a suo modo lo è) e non uno di chi ancora sta lottando.
Selma sostanzialmente è un'opera impeccabile senza nemmeno una briciola d'audacia, una che contrariamente ai protagonisti che racconta non ha la minima volontà di fare la differenza o di prendere posizioni difficili a proprio rischio e pericolo. Se è vero che la storia è tale a partire dalla lettura che ogni epoca ne dà e che questo genere di film servono proprio a cambiare le priorità e la rilevanza che diamo a correnti, episodi e figure storiche, è anche obiettivo che difficilmente si poteva fare un film più innocuo.
Recitato con intensità, scritto con attenzione al dettaglio e alla correttezza Selma ha come bersaglio categorie umane che o non esistono più o sono già relegate alla peggiore posizione nella realtà dei fatti, ai margini della società. Un film che chiede al pubblico di prendere la posizione più semplice e quindi, indirettamente, lo distoglie da quelle più complicate e attuali. Ava DuVernay sceglie di non gettare nessuna luce sul presente, di concentrarsi sulle vittorie del passato senza sottolineare mai come il problema non siano tanto gli estremisti (che alla fine del film le didascalie riportano essere poi finiti malissimo) quanto quella fetta di società che accetta l'integrazione razziale solo formalmente ma mai fino in fondo.
Ogni discorso di Martin Luther King è mostrato con l'enfasi dei vincitori, non con la predestinazione della morte (che arriva sotto forma di didascalia, anch'essa con pochissima enfasi), ogni passo verso la conquista è mostrato come un trionfo a senso unico che non lascia strascichi o problemi.
Se il razzismo è una questione ancora aperta questo film dice agli spettatori: "È tutto a posto. Abbiamo vinto. È finita".
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