Che lavoro fa il protagonista della storia? Sembra essere la prima domanda che si fanno Paul Laverty e Ken Loach nel pensare un nuovo film e del resto è ciò che viene narrato per primo nella fase di setup del film. Ricky Turner dopo diversi mesi senza un impiego ha trovato lavoro come corriere. La particolarità del lavoro sta nel fatto che è un finto imprenditore di se stesso, gli dicono che è autonomo, che lavora in franchise ma in realtà è soggetto a talmente tanti obblighi e regole che di fatto è un impiegato senza nessun diritto e solo i rischi imprenditoriali addosso. Il primo giorno gli spiegano (e quindi spiegano a noi) cosa deve fare, che l’attrezzatura è sua responsabilità, quanto costi e che succede se sgarra. Il sapore è quello di un piccolo showcase di tutto ciò che è destinato ad andare male lungo il resto della storia. Perché è per questo che Loach racconta il lavoro: per affermarne l’importanza ma soprattutto per metterne in evidenza le ingiustizie e la disumanità.
Per permettersi il van Ricky vende la macchina della moglie che continua a fare il suo lavoro di badante domestica con i mezzi pubblici (quindi peggio) e i due lavorano così tanto da non riuscire a stare appresso ai figli (uno dei quali molto scapestrato e bisogno di presenza dei genitori). Senza contare che lavorare così, con questa foga quantitativa resa necessaria dalle molte spese, peggiora la qualità di quello che fanno e l’umanità che possono mettere nel contatto con i clienti e con i colleghi. Lavorare di più, lavorare peggio, essere meno umani.
Si tratta di una teorizzazione chiarissima messa in storia: in un sistema che spinge le persone a competere per raggiungere un guadagno minimo indispensabile per vivere il resto del mondo diventa il nostro carceriere. Di contro solo quelle pochissime persone a noi davvero vicine possono essere la salvezza. Nei film di Loach e Laverty la risposta è sempre la comunità, sia la famiglia siano i compagni di lavoro.
Se rimane sempre commovente la maniera in cui questo regista riesce a dimostrare senza sbandierarlo ma con una messa in scena minima un amore e una dolcezza incondizionate per i propri personaggi anche quando si comportano nelle maniere più condannabili, in Sorry We Missed You l’impressione è che l’unico obiettivo sia quello di provare un punto, creare una storia di finzione in modo che confermi l’assunto di partenza. Non c’è nessun dubbio, non c’è nessuna situazione spinosa di difficile risoluzione o dettaglio che fa pensare agli incastri della società contemporanea. Sorry We Missed You è ideologico (come sempre Loach) ma semplicistico (come raramente Loach), costruisce una storia in cui tutto va semplicemente male e la impone come realtà.
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1 commento:
Come si sta male in sala durante..e anche Dopo.. nessuna luce nessuna salvezza.
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