Grandissimo fotografo, LaChapelle si concede un incursione nel genere documentario e realizza Rize, un'opera esteticamente folgorante come era da aspettarsi, anche se cinematograficamente non eccellente. Il tema con tutta probabilità è stato scelto anche per l'affinità estetica con lo stile del regista, le sue fotografie dense di elementi eterogenei e coloratissimi, non sono troppo diverse da molte delle naturali ambientazioni vivaci e colorate dei sobborghi afroamericani. Al centro di tutto c'è la comunità di colore del ghetto di South Central a Los Angeles ed alcuni movimenti o gang di danza metropolitana sviluppatisi a partire dall'iniziativa di un clown che anima feste per bambini e parallelamente ha una sua gang di ballo.
Alcune scene sono anche palesemente create ad arte, sequenze di ballo in ambienti lachapelliani, nelle quali il fotografo si può permettere anche l'uso di obiettivi e filtri particolari che le rendono delle piccole operette.
Per il resto il documentario parte narrando di un modo di fare fronte al disagio ed alla criminalità dei sobborghi e finisce a parlare della cultura nera nel senso più ampio mostrando come tutto sia collegate alle loro origini e al blues e come tutto si confronti continuamente con lo stato di degrado sopra il quale, appunto, si vogliono ergere. Di grande effetto la scena in cui i balli di una delle gang, che ha sviluppato un modo autonomo di ballare e dipingersi la faccia, vengono messi a confronto, tramite il montaggio alternato, con alcuni balli tribali nei quali uomini delle tribù africane si muovono e hanno la faccia dipinta in modo molto simile.
Meno toccanti le parti più kitsch riguardo le giovani morti per conflitti a fuoco e le tragedie del ghetto al margine di questi eventi.
Rimane tuttavia un documento forte della cultura afroamericana ancora legatissima alle sue radici, un retaggio immateriale e quasi genetico che si manifesta anche in questa che è solo una delle loro molteplici forme d'espressione. Ed è anche malinconico alla fine quando molti di loro parlano di diventare qualcuno contagiato dal mito americano del successo che in fondo non gli appartiene.
Alcune scene sono anche palesemente create ad arte, sequenze di ballo in ambienti lachapelliani, nelle quali il fotografo si può permettere anche l'uso di obiettivi e filtri particolari che le rendono delle piccole operette.
Per il resto il documentario parte narrando di un modo di fare fronte al disagio ed alla criminalità dei sobborghi e finisce a parlare della cultura nera nel senso più ampio mostrando come tutto sia collegate alle loro origini e al blues e come tutto si confronti continuamente con lo stato di degrado sopra il quale, appunto, si vogliono ergere. Di grande effetto la scena in cui i balli di una delle gang, che ha sviluppato un modo autonomo di ballare e dipingersi la faccia, vengono messi a confronto, tramite il montaggio alternato, con alcuni balli tribali nei quali uomini delle tribù africane si muovono e hanno la faccia dipinta in modo molto simile.
Meno toccanti le parti più kitsch riguardo le giovani morti per conflitti a fuoco e le tragedie del ghetto al margine di questi eventi.
Rimane tuttavia un documento forte della cultura afroamericana ancora legatissima alle sue radici, un retaggio immateriale e quasi genetico che si manifesta anche in questa che è solo una delle loro molteplici forme d'espressione. Ed è anche malinconico alla fine quando molti di loro parlano di diventare qualcuno contagiato dal mito americano del successo che in fondo non gli appartiene.
1 commento:
per tua conoscenza - e si spera non solo tua - il film esce in sala!!!! il 6 ottobre in italia. http://www.docfest.it/palazzovenezia_sito/2006/programmazioni/pgr_index.html
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