Tre ragazzi vogliono passare il confine tra Messico e Stati Uniti. Uno è in realtà una ragazza, la vediamo nella prima scena tagliarsi i capelli e vestirsi da maschio, un altro è indio del Chapas che non parla una parola di spagnolo e il terzo è un bullo del Guatemala. I mezzi e i metodi chiaramente sono i meno ortodossi, più pericolosi e rischiosi. Per cosa poi? Per arrivare ad una meta che come una gabbia dorata costringe a nascondersi e vivere in maniera derelitta, solo in un contesto migliore.
C'è una certa aura di tragedia annunciata fin dall'inizio di questo film che, lo si intuisce, non può andare a finire bene, non ne ha il tono, non ne ha le intenzioni.
La storia dei tre emigranti è messa in scena proprio per dimostrare le torture implicate nella folle idea di scappare negli USA passando dal Messico, le assurdità che si incontrano, le privazioni, i rischi e il dolore fisico e umano che si prova. E' un lungo esperimento nel concetto di "uomo mangia uomo", gestito ad un passo dal benessere spacciato per tutti. Per questo La gabbia dorata sembra più programmatico che altro, un film che impone ai personaggi un'odissea di disperazione per dimostrare qualcosa, peraltro già noto ed accettato, agli spettatori, dimostrandosi così subito fasullo. Il contrario stesso della spontaneità.
Nel film di Diego Quemada-Diez tutto appare pensato per un dolore più grande, ogni svolta appare come un'epifania della disperazione, poichè nella storia non si scorge altro possibile percorso che non quello che porterà in America e quindi all'infelicità. Rimane da chiedersi solo in quanti ce la faranno ad arrivare.
Se esiste disonestà al cinema (ed esiste) è in questo tipo di atteggiamento che imbastisce una lunga storia per convincere il pubblico della propria teoria invece che lasciare che rimangano contaminati da una storia e una messa in scena ambigue e sottili.



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