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5.3.15

Black or White (id., 2015)
di Mike Binder

PUBBLICATO SU  
Il problema non è la razza in questo film che si chiama Black or White.
La piccola Eloise è stata cresciuta dai nonni paterni visto che la madre (bianca) è morta partorendola e il padre (nero) è un drogato. La nonna è però ora deceduta anch'essa in un incidente d'auto e rimane solo il nonno (Kevin Costner) ad occuparsene, con tutta la goffaggine di un uomo alle prese con una bambina e le sue esigenze. Per giunta un uomo con la tendenza a rivolgersi alla bottiglia per tappare il dolore. A questo punto interviene la nonna materna, che crede ancora nella capacità del figlio di uscire dai problemi di droga, e pretende che la bambina stia con loro, nel quartiere abitato da afroamericani, invece che con i bianchi ricchi che le fa frequentare il nonno.

Che il problema non è la razza lo dirà Kevin Costner nel prevedibile epico discorso in tribunale (quando gli avvocati sentono "razzismo" e "alcolismo" impongono subito una causa) nel quale fa una chiara differenza tra avere percezione che le persone appartengono a razze diverse e il pensare che per questo motivo sia possibile dare loro un'etichetta, tra disprezzare qualcuno per il colore della sua pelle e disprezzarlo come lui disprezza il padre di Eloise, perchè è un drogato che per questo non è in grado di prendersi cura di sua figlia.
Il problema non è la razza anche se il film dipinge in maniera molto diversa le due famiglie, quella silenziosa, ricca e piena di possibilità (bianchi) e quella gioiosamente chiassosa ma anche a stretto contatto con le realtà più dure della criminalità (neri). Il problema è l'amore, chi ne ha (tutti, sia ben chiaro che ci si vuole tutti un gran bene) e sa come esprimerlo e chi lascia che i propri problemi personali si mettano in mezzo.
Di certo il problema non è neanche l'alcol, che rischia di uccidere Kevin Costner ma non gli leva l'affidamento perchè la droga è peggio.

Organizzato nella più prevedibile e scontata delle cornici narrative Black or White è una favola che trasfigura la realtà mostrando solo una pallida imitazione dei suoi reali contrasti (una in cui anche il più bastardo alla fine si pente nel nome dell'amore) e che evita l'azione per tutta la sua durata salvo recuperarla in extremis in un finale senza senso, utile solo ad aumentare il tasso di bontà delle persone coinvolte. È una piccola finestra per attori noti a cui viene chiesto di ripetere quello che sappiamo sanno fare (Octavia Spencer non devia nemmeno per un attimo da quel che ci aspettiamo che lei dia ad un personaggio già tarato sulle sue solite interpretazioni) a beneficio della propria immagine.

Black or White, orgogliosamente tratto da una storia vera, è insomma il cinema smielato per antonomasia, quello in cui, anche quando non si vuole calcare sul melodrammatico, tutte le regole più elementari possono essere sovvertite in nome dell'amore familiare e di una generica bontà d'animo che si trova in fondo anche agli esseri umani peggiori o nelle persone più in difficoltà. La disputa più seria, la questione più dura e la sede più austera (un tribunale) possono allora essere sovvertiti nei loro principi basilari senza sfociare nella commedia (magari!) ma solo nel nome dei buoni sentimenti.

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