Le storie di italiani di seconda generazione sono la parte più attuale del cinema. Esclusi i film (reali, fantastici o di genere) che cercano di inquadrare la grande storia di come la tecnologia stia cambiando noi e la nostra società per poterla raccontare, quelli dei nuovi italiani sono le trame più importanti, le uniche che possano davvero dirsi in grado di cogliere i cambiamenti della quotidianità. Sono anche le meno viste, almeno nel cinema italiano. Con l’eccezione notevole di alcune commedie come Lezioni di Cioccolato 1 e 2, il cinema di grande incasso non affronta mai questi nuovi personaggi.
Per Un Figlio è esattamente questo, il racconto di una madre e un figlio che vivono in Italia a cavallo tra due generazioni completamente diverse. Lei con un piede nei costumi, nei modi e nella cultura in cui è nata, lui con un tutti e due i piedi in quella italiana, animato da un certo disprezzo per quelle diversità che porta nella pelle e nel volto che crede gli impedisca di essere come gli altri.
Il film di Suranga Deshapriya Katugampala (il cui nome tradisce l’origine cingalese) è per l’appunto un’opera a budget molto basso, tarata su standard molto autoriali che però solo a tratti è all’altezza delle proprie aspirazioni o è anche solo in grado di dare un senso al proprio racconto.
Per Un Figlio ha ad esempio una fantastica maniera di suggerire la presenza religiosa tramite l’esibizione di elementi e dettagli di diverse divinità nello sfondo e nell’arredamento, senza mai menzionarli, creando ambienti in cui la presenza del divino nelle vite quotidiane è così radicata da sembrare scontata. Dall’altra parte però la sua opposizione molto basilare tra madre e figlio, la prima dedita unicamente al dovere, capace di dormire su una sedia per lasciare il letto al figlio, e il secondo dedito unicamente al piacere, al cazzeggio con gli amici, apparentemente incapace di assumere delle responsabilità, non rende giustizia a quella relazione complessa che il film desidera raccontare.
Il mondo derelitto dell’Italia Settentrionale in cui tutto è ambientato è un inferno provinciale in cui prende forma quel contrasto che sembra essere l’unico possibile in questo tipo di film (probabilmente perché il più pressante), ovvero quello tra una cultura che pare ancestrale (quella d’origine) e un’altra più attuale e ingombrante. Ma davvero non è possibile riflettere o declinare queste idee attraverso un intreccio così povero e così schierato da una parte sola, uno in cui poco o nulla viene costruito e solo nel finale una visione salvifica di una madre con bambino opererà l’improvvisa e messianica conversione. Tutto insieme, troppo di fretta.
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