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23.5.17

The Killing Of A Sacred Deer (id., 2017)
di Yorgos Lanthimos

CONCORSO
FESTIVAL DI CANNES
Ci sono diversi oggetti che in questo film impegnano le energie e gli interessi dei personaggi, anche quando sono avviati verso la morte. Sono orologi di diverse marche e fogge, lettori mp3, torte di mele e un fucile da caccia. Tutti beni di consumo o da consumare che sono usati per minacciare ma anche per comprare i favori all’interno di una famiglia, il posto in cui nulla dovrebbe essere comprato. Siamo però in un film di Lanthimos e la famiglia è l’ultimo posto in cui stare tranquilli, questa in particolare è afflitta da una specie di piaga, una maledizione che gli è stata lanciata addosso e sta avendo effetto.

Re delle sinossi (e non sempre dei film completi) Lanthimos assieme al fido Efthymis Filippou ne scrive un’altra da medaglia al valore: tutti i membri della suddetta famiglia si paralizzeranno, smetteranno di avere voglia di mangiare, sanguineranno dagli occhi e poi moriranno, a meno che il padre, di lavoro cardiochirurgo, non ne uccida uno. A lanciare questa specie di maledizione è un ragazzo il cui genitore è morto sotto i ferri proprio del protagonista, cioè Colin Farrell. Occhio per occhio, lui ha perso un padre, il chirurgo deve perdere un familiare a scelta tra moglie, figlio o figlia. A poco è servito l’orologio che all’inizio gli offre in regalo. E a poco serviranno gli oggetti che, capita l’antifona, moglie e figli cercheranno di regalargli o i favori sessuali e non che gli offriranno per sottilmente indurlo a non scegliere loro.

The Killing of a Sacred Deer gioca lo sport di Haneke, descrive un contesto molto rigido, in cui un’apparente pulizia e correttezza viene usata per perpetuare se stesso e il proprio benessere, per essere inattaccabile, e lo fa attaccare da una forza invincibile e incomprensibile (gli esempi più clamorosi sono Funny Games e Niente da Nascondere ma ogni film di Haneke ha questo trucco). A questo punto quel che accade è lo smembramento di ogni maschera e la rivelazione di cosa ci sia dietro quell’ordine, l’ordinaria mostruosità umana. Lanthimos questo sport lo pratica da tempo e molto bene, qui sembra quasi raggiungere il gelo artico dei film del suo maestro, quella capacità di colpire con esiti ineluttabili, intrecci caotici e apparentemente ingiusti.

Di meno questo cineasta greco non ha il pugno di ferro, la capacità di colpire effettivamente dove fa più male, nei temi o nei gangli irrisolti che bruciano dentro ognuno, in più invece ha un umorismo incredibile, nero come la morte, senza la minima pietà. Solo in The Killing of a Sacred Deer è capace di ridere e far ridere nei momenti peggiori e dei drammi più atroci o delle sofferenze più buie. Far ridere di bambini in procinto di morire, nella stessa maniera in cui fa ridere di un ridicolo chirurgo inadeguato ai rapporti sociali. Come fossero la stessa cosa.

C’è qualcosa di potentissimo in questo meccanismo ma anche nella maniera perfetta in cui Lanthimos lo mette in scena con il direttore della fotografia Bakatakis e i suoi grandangoli, capaci di abbracciare ambienti immacolati, solari e spesso quasi vuoti. La sintesi visiva delle scene di questo regista è impeccabile. Qui addirittura è accompagnata anche ad un desiderio ammirabile di scendere dalla torre del cinema ermetico e imbastire un intreccio chiaro ed esplicito.

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