Sugli adattamenti di Stephen King gira la voce che l’unica maniera per essere davvero fedeli, cioè per rappresentare le idee e le sensazioni che scatenano, sia tradirli, cambiarli e asciugarli. Il primo capitolo di IT girato da Andy Muschietti si è proposto fin dall’inizio come il contrario, come una versione estremamente fedele del romanzo (per quanto necessariamente ridotta), trasportata agli anni ‘80 da che era ambientato nei ‘50 (eredità che si percepisce nel tipo di razzismo un po’ demodé nei confronti di Mike).
Atteso al varco su una serie di elementi, primo dei quali la resa dell’incarnazione più famosa di IT, il clown Pennywise, il film di Muschietti fa un lavoro molto ordinario sulla paura ed è semmai altrove a stupire: nella maniera sofisticata in cui i ragazzi interagiscono, nella passione per i piccoli gesti e nell’abilità non comune di lavorare addirittura sulla poesia e dargli un senso in una storia per ragazzi. Muschietti è così bravo con il cast e con l’adattamento delle pagine e dei dialoghi che al suo film sembra possibile fare tutto, trovare la presa in giro come la tenerezza, l’amicizia, le pulsioni, l’odio e la rabbia.
La vera virtù di IT è infatti il suo carico di rabbia. È il primo film tratto da King che sembra venire dal medesimo rabbioso desiderio di condanna dello scrittore. L’orrore in King non ha origine tanto dalle fobie o dalle ansie, ma dall’odio che questo scrittore ha per certi atteggiamenti umani. Come nelle sue storie, specie quelle più vicine agli esordi, anche questo film riesce a trasferire allo spettatore una rabbia e un odio profondi nei confronti delle comunità piccole e bigotte, per la violenza psicologica e fisica degli uomini su altri uomini. È una carica così tangibile da far sembrare plausibile qualsiasi efferata violenza o presenza demoniaca. Non è in fondo assurdo che esista il maligno o il demoniaco in un mondo in cui gli esseri umani sono così infami.
Purtroppo questo IT non riesce a replicare la trovata migliore (o forse sarebbe meglio dire l’unica) della miniserie anni ‘90, cioè quella di lavorare su un tipo di paura originale e non derivativa. Il Pennywise di Bill Skarsgard è corretto, ben recitato e concepito ma nulla più, perché è un mostro generico, che fa paura con i botti, le apparizioni improvvise e il trucco, che ghigna, rincorre, ha la voce spaventosa quando serve e sta nelle pose tipiche dei mostri. L’altro invece, quello di Tim Curry, non faceva niente di tutto ciò e metteva paura con l’esatto contrario, aveva una maniera unica di stare ovunque, comparire e spaventare facendo lo scemo, con un’esagerata adesione alle movenze dei veri clown, motivo per il quale si è fissato con una forza indelebile nell’immaginario collettivo. Era meno fedele ma funzionava di più in un film, perché fondava un immaginario di paura nuovo e proprio, fatto di risate e scherzi al pari di denti aguzzi e sangue.
Scacciato per tutto film l’adagio per il quale King va tradito per essere rispettato, chiede il conto verso il finale quando IT inizia a mostrare i suoi limiti. Nella storia tutto viene dalla paura, ogni malvagità e ogni violenza nasce lì, anche gli adulti o i bulli si comportano nelle maniere peggiori per paura (di perdere una figlia, delle malattie, dei loro genitori, dell’inadeguatezza…), e la paura è ciò che rende i ragazzi vittime di IT. Nel momento in cui cercano di vincerla si capisce che l’idea di Muschietti è di ridurre la potenza dell’impatto spaventoso della creatura, di normalizzare la presenza di Pennywise e renderla più ordinaria, cioè spaventare meno il pubblico. Visivamente però questa revisione è un territorio ambiguo, in cui il film perde molto del suo afflato e sembra quasi tirare lo spettatore fuori dalla sospensione, non riuscendo più a coniugare la profonda epica della lotta contro il male, con una sua visione non paurosa, ma consapevole e coraggiosa.
Tuttavia il primo capitolo del nuovo IT è per fortuna un racconto di formazione prima che uno dell’orrore e come tale trionfa, giocando tra la presenza sovrannaturale e quella molto naturale dell’ordinaria cattiveria umana. A conquistare qui è il rapporto tra l’unica ragazza del club dei perdenti e gli altri, la paura che traspare dalla bocca larga di Richie, l’ipocondria di Eddie e tutti i rapporti che i ragazzi maturano. Sono le loro piccolezze e le debolezze, ma soprattutto come vengono accettate dagli altri, a costituire l’unica salvezza.
2 commenti:
Quello che dici a proposito del Pennywise di Tim Curry è perfetto. Una performance unica, anche se questo non vuol dire che il film di Muschietti magari è complessivamente migliore di quello anni '90
eh si infatti
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