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20.5.18

Capharnaum (id., 2018)
di Nadine Labaki

CONCORSO
FESTIVAL DI CANNES
Il cinema quando racconta i bambini quasi sempre sceglie i teppisti, perché sono quelli con una psicologia più complessa, sono piccoli adulti con ancora molti atteggiamenti infantili, sono contraddittori, adorabili e vicini al pubblico che guarda come desideri e aspirazioni. Non fa eccezione Capharnaum, l’ultimo film di Nadine Labaki, in cui ad animare tutto è un bambino di circa 10 anni sboccatissimo che vive per strada, non va a scuola, disprezza i genitori (a ragione) e cerca di guadagnarsi da vivere spacciando noncurante della sua età.

Non avesse un protagonista scritto così bene, così sfrontato e così credibile grazie ad un interprete perfetto, Capharnaum non sarebbe davvero guardabile. Perché intorno alle peripezie di questo bambino che apre il film in un’aula di tribunale, in cui sta facendo causa ai propri genitori dopo aver accoltellato un uomo (“Un figlio di puttana!” dice lui), si innesta un film che cerca di rappresentare la miseria più nera, così disperata da trovare sempre nuovi eccessi ed essere difficile da guardare. Non è tanto non avere nulla ma proprio non avere prospettive, essere abbandonati da tutti gli adulti e perseguire progetti impossibili.

Le strizzate d’occhio al cinema italiano del dopoguerra sono parecchie in questo film in cui tutti gli uomini sono pessimi e non si prendono le proprie responsabilità mentre un piccolo uomo invece se le carica tutte regolarmente, nonostante non sarebbe in dovere di farlo. Difenderà la sorella e si prenderà cura di un neonato (lui che ne ha 10 di anni), mentre il mondo lo mena, lo sfratta, lo affama e lo disprezza. Di quel cinema italiano insomma ha sicuramente il desiderio di non fermarsi davanti a niente, ma non anche la delicatezza e il rigore che ne giustificavano la durezza.

Non ci sono dubbi che stavolta Nadine Labaki abbia fatto un salto in avanti quanto a filmmaking. Rispetto a Caramel e E Ora Dove Andiamo?, ora Capharnaum è diretto con grande solidità, è ambizioso nonostante una cornice un po’ da favola (per l’appunto il processo del bambino ai genitori preso sul serio da tutti) e dirige in maniera fantastica i due bambini, non solo quello di 10 anni ma soprattutto il neonato che sembra davvero recitare.

Tuttavia la sistematica rappresentazione del peggio del peggio non sembra avere altro fine che non sia il tenero sguardo su un bambino e la commozione forzata del pubblico. Dove va a parare questa storia di abbandono e di grande forza in un piccolo protagonista? Questa divisione sistematica del mondo in migliori e peggiori e questa ricerca della benevolenza del pubblico tramite lacrime e sorrisi purtroppo coinvolge figure che sarebbe delicate da trattare e che qui invece vengono sparate in faccia con il cannone. Dietro un’ottima fattura non si intravede nemmeno la denuncia sociale (all’acqua di rose) o la documentazione di una realtà (non è specificato dove si svolga la storia), la possibilità di un discorso più elevato (anzi) o ancora la semplice voglia di mettere in scena con onestà un personaggio e le sue reazioni. Perché l’onestà non può esistere quando ogni momento assembla tenero e amaro per rigirare il coltello nella piaga senza altri fini.

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