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1.9.18

Il primo uomo (The First Man, 2018)
di Damien Chazelle

Cosa volesse fare Damien Chazelle con Il Primo Uomo è chiaro. Nella storia di Neil Armstrong vista dai suoi occhi c’è tutto il suo mondo: la ricerca dell’eccellenza e l’ambizione di emergere nel proprio lavoro tramite una dedizione straordinaria che lascia svuotati, soli e sacrifica la vita privata. Purtroppo è solo una volontà e non un film. Corretto come non è mai stato Chazelle gira un film classico attualizzato all’epoca di Terrence Malick (incalcolabile l’influenza che ha avuto The Tree Of Life) e debitore più che altro a Uomini Veri di Philip Kaufman (già ispirazione di Interstellar), film del quale questo sembra il sequel non all’altezza dell’originale.

Non che non sia godibile Il Primo Uomo, resoconto corretto e impeccabile della fase finale della corsa allo spazio e di quegli anni nella vita di Neil Armstrong dalla morte della tragedia privata nelle prime scene fino al trionfo del 1969. Tuttavia non c’è mai in questo film così convenzionale l’alito del campione visto in Whiplash e La La Land. Incontestabile nella fattura, un pelo vintage nella sua grana e musicato come sempre alla grande da Justin Hurwitz, il terzo film di Chazelle è il più inquadrato e quello più a forma di grande studio di produzione. Quando un pezzo della nave che porta i protagonisti della Luna si stacca con la stessa inquadratura ben nota con cui avviene in Apollo 13 di Ron Howard, non sembra di vedere una citazione ma la rassegnata presa di coscienza di chi sta realizzando un film come altri.

Eppure la sceneggiatura sembra ben concepita per come mira a raccontare le difficoltà di Armstrong per emergere e le difficoltà della NASA per mandare l’uomo sulla Luna al pari di uno sport che richiede determinazione, dedizione e concentrazione (del resto in Whiplash pure la musica sembrava uno sport). Non vediamo mai i benefici che la conquista della Luna può portare, non c’è l’eccitazione di esplorare qualcosa di nuovo e incontaminato, la corsa allo spazio è un dovere per il quale i protagonisti si sacrificano. Tutto è sofferenza nel mondo di Chazelle, soprattutto l’eccellenza. E anche l’impresa più storica del ‘900 è quasi un atto anticonformista e controcorrente per quanto è osteggiata dall’opinione pubblica. Qualcosa da ribelli e sognatori.

Con un impianto e un taglio così nobili viene da chiedersi dove sia finito il mago di La La Land, quello capace di trasformare la sua visione in film con quella che si presentava come un’apparente facilità. Le parti migliori, come la terribile precarietà della strumentazione e la complicata componente umana nel manovrare oggetti complessi come i moduli lunari vengono (come già detto) o da Uomini Veri o da Interstellar, da cui il film mutua la sequenza più eccitata e musicata, quella in cui la forza cinetica di un modulo rotante sembra impedire ai personaggi di compiere l’azione che li manterrà in vita.

In tutto questo scompare Ryan Gosling, che con il suo stile minimale aveva bisogno di un altro film (o di cambiare stile per tenere in piedi questo) ed emerge il resto del cast, più in parte, più dinamico e più potente, a partire da Claire Foy. Lei almeno sa benissimo declinare un’unica sensazione (è preoccupata e triste per tutto il film) in mille espressioni e variazioni, non è mai maschera dell’ansia ma persona completa e ogni volta ha ragioni e spinte diverse per sentirsi come si sente.

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