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21.1.19

Se la strada potesse parlare (if beale street could talk, 2018)
di Barry Jenkins

Sembra che questa volta Barry Jenkins abbia mirato alla prossimità e all’intimità che Xavier Dolan aveva creato in È Solo La Fine del Mondo, quella dolce alcova fatta di primi piani e una fotografia che oscilla tra il nero e i colori caldissimi. Così ha confezionato un film che trasforma una storia perfetta per il cinema di indignazione civile in una questione personale fino a che la violazione dei diritti non diventa una violazione d’intimità. Tutto viene dal romanzo omonimo di James Baldwin, ma questo che avviene al cinema è un passaggio determinante per trovare una forma nuova ad un cinema che non ha esaurito la propria funzione ma di certo, e da tempo, ha esaurito efficacia e necessita di rinverdire la forma del proprio linguaggio.

Il film vero in realtà parte un po’ dopo il vero inizio, parte all’annuncio della gravidanza, quando una storia d’amore tra due amici d’infanzia slitta in un grande vincolo suggellato come in un melò degli anni ‘50 dall’amplesso in una baracca.
Per l’annuncio della gravidanza Jenkins crea uno dei momenti migliori della sua carriera sterzando l’intero film in quella direzione, come se l’annuncio cambiasse il mondo intorno a tutti. È un momento soffice e morbido, con un brano jazz di sottofondo che fa scopa con le voci degli attori, ferme un passo prima del flautato. È la morbidezza della famiglia in una scena che ha il rassicurante comfort di un vecchio divano, diretta con calma ma senza limitarne il potenziale emotivo.

Come sempre avviene è la preparazione della violazione, la creazione di un futuro, un domani e una vita da vivere che possono essere distrutte. Eppure questo tono soffice, sempre attutito da un jazz onnipresente, sempre soffice, e sempre aiutato da una fotografia piena di chiaroscuri e da una recitazione cauta, sono in totale controtendenza con i racconti nervosi delle famiglie afroamericane vessate dall’uomo bianco cui siamo abituati. Jenkins limita l’ingiustizia quasi fuori campo, rifiuta le scene di clamorosa violenza e cerca invece di ritrarre ciò che viene negato al protagonista: il mondo fuori, la vita da vivere.

Questa qualità intima che sembra venire dalla musica e invece è frutto di un curato ensemble nel quale la palette di colori gioca un ruolo centrale, ed è un dono pazzesco che però il film comincia a sprecare nella seconda metà, quando deve metterlo in relazione alla lotta per la libertà e la giustizia. In quel momento ciò che prima era delicato diventa subito retorico, quell’astrazione così poco realistica e così cinematografica che fa così bene alla cronaca dell’umanità domestica e che dà a tutto quel fantastico tono da ricordo d’infanzia diventa subito pesante perché associata alla denuncia dell’ingiusto.
Si scopre così che la cronaca dell’indignazione fatta con questa dolcezza, senza la rabbia ma anzi con rassegnata umanità è solo un compiangersi.

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