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13.3.19

Escape Room (id., 2019)
di Adam Robitel

I propri modelli Escape Room li dichiara invece di nasconderli, non fa mistero di essere una fusione di Saw, Final Destination e The Cube: un nucleo di persone coinvolte in un gioco mortale dal quale non possono uscire (nonostante il divertimento sia vederli tentare), attraverso una serie di stanze nelle quali rivivono i loro peccati, che poi sono la ragione per la quale sono stati coinvolti. Il pretesto di tutto (del gioco mortale e del film stesso) sono le Escape Room, ovvero il gioco che esiste davvero e consiste in stanze progettate per essere piene di indizi su come uscire da esse. I giocatori entrano in squadra e devono collaborare, esplorare, muovere, risolvere enigmi e scoprire come si esce. Nel film se non riescono ad uscire in tempo muoiono.

C’è quindi un sottile doppio livello in questo film che non vuole di certo parlare di cinema ma che involontariamente mette in scena il processo attraverso il quale si costruiscono le singole scene di un film. Le stanze sono di fatto dei set, sono immaginate e scenografate per ospitare persone e coinvolgerle in azioni che le mettano in difficoltà, svelando così le loro backstory, che poi è quello che fa un regista: mettere attori in difficoltà prendendoli in azioni che svelino la storia dei loro personaggi. Ogni Escape Room che i personaggi attraversano è ben studiata per rivolgersi ad uno solo dei personaggi (ma lo capiamo con il tempo), per rimettere in scena qualcosa che ha fatto. Ogni stanza una vittima.

È subito evidente che Escape Room non ha l’astrazione che, con tutta l’ingenuità che possedeva, animava The Cube ma più il gusto della punizione di Saw. C’è qualcosa o qualcuno dietro al meccanismo (anche se questo appare sovrannaturale), c’è qualcuno che controlla, ordina e confabula per intrappolare i personaggi e saldare i loro conti tramite il sangue. In Saw, o almeno nei suoi momenti migliori, c’era una strana tensione tra il parteggiare con le vittime (come sempre avviene al cinema) e il giustizialismo, l’idea cioè che avessero commesso qualcosa di così terribile da “meritare” la pena di morte a meno che non ammettessero un pentimento o non sacrificassero qualcosa. Una legge del taglione che chiede la flagrante umiliazione come forma di pentimento e salvazione, impossibile per lo stato ma bramata dal pubblico. Qui invece quel sentimento non è presente, i crimini dei singoli non sono così condannabili e c’è l’idea che gli aguzzini (chiunque siano) non siano stimabili. L’impressione è che quindi sia una versione di Saw con meno idee e più barrocchismo nelle scene.

È una differenza non da poco perché alla fine nella serie Saw era proprio l’enigmista il protagonista, l’intelligenza incredibile che porta una giustizia frutto di un intelletto superiore. Forse per questo allora la parte migliore di Escape Room, che rimane comunque un film godibile dal buon ritmo, molto molto sempliciotto e diretto (ma bravo a non far percepire il fatto che è stato pensato per essere vietato solo ai minori di 13 anni), sta nella creazione della mitologia dietro le Escape Room, quel genere di profondità non di senso ma narrativa in cui poter muovere un franchise agilmente e che dà respiro anche a quest’avventura di tensione dal rapidissimo consumo.

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