Ci sono pochi dubbi sul fatto che i Motley Crue siano tra le band più malfamate della storia del rock. Così tanto che anche in un film che ricostruisce la loro carriera prodotto da loro stessi sembrano non esserci stati grandi interventi di ripulitura riguardo le molte voci in circolazione. A differenza infatti di quanto accaduto con Bohemian Rhapsody, che tutto quel che ha da dire è molto adulatorio e tantissimo altro tace, The Dirt mira ad accrescere la mitologia dissoluta del gruppo a partire da un inizio folgorante.
Croce e delizia del film, questa onestà e voglia di identificare se stessi con gli eccessi è ciò che immediatamente imposta il tono del film ma anche quello che ne limita un po’ la forza. Perché The Dirt crede di essere molto più intelligente e originale di quanto non sia e sembra trovare nella rappresentazione degli eccessi il proprio statuto. Sotto alle donne rubate, l’alcol tracannato, le groupie sotto ai tavoli e la droga sniffata, fumata e iniettata infatti c’è una struttura molto autoassolutoria. Nonostante (quasi in una forma di rispetto) nella scena più incredibile (perché reale) lascino il proscenio ad Ozzy Osbourne, nume tutelare in fatto di sfascio, nel lungo finale sembrano confezionare delle scuse e chiudere un cerchio metaforico all’insegna di una redenzione che a questo punto, e limitatamente al film, suona come una sconfitta.
Per il regista che viene da Jackass e Nonno Cattivo riprendere questo tipo di storie ed aneddoti dovrebbe essere routine a cui applicare magari un filtro, a cui saper dare un senso, invece oltre a “eravamo giovani, quante ne abbiamo fatte!” non c’è molto altro. Certo la storia dei Motley Crue è ben raccontata, certo la musica è rispettata e molto presente e di certo c’è un senso di dinamica molto ma molto maggiore rispetto ai soliti film biografici (ogni scena accade qualcosa di clamoroso) ma forse una band simile meritava di andare anche più a fondo della rappresentazione degli eccessi seguiti dalla loro fisiologica fine.
Il problema rimane il fatto di avere gli stessi soggetti rappresentati come produttori. Gli aneddoti di prima mano e la carta bianca nell’andare sul pesante riguardo la vita in tour e la distruzione delle relazioni personali sono un merito, ma poi le pacche sulle spalle finali, i buoni sentimenti elargiti come mangime alle galline e la conversione del film (simile in tutto e per tutto a quella del leader del gruppo) non solo ravvedono molto di quel che il film ha osato, ma gli impediscono di affrontare con serietà un qualsiasi discorso, sconfinando nella mansueta autobiografia.
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