Al cinema esistono due livelli di implausibilità: l’implausibilità esterna, quella del fantastico per la quale accadono cose che sappiamo non essere possibili ma che accettiamo, e l’implausibilità interna, ovvero eventi assurdi o reazioni assurde dei personaggi che non sono giustificate dai presupposti di fantasia, e che quindi non possiamo accettare. The Prodigy le riassume entrambe, ha dei presupposti di fantasia ma poi devia e fa accadere quanto di meno accettabile ci sia.
Questo horror che arriva circa un anno dopo Hereditary a trattare (almeno per metà della sua durata) tematiche simili ha ottime intenzioni ma nessuna capacità di metterle in pratica.
C’è un demone che incarna diversi uomini e che ora vive dentro un bambino, il quale gradualmente dimostra segni di meschinità, insofferenza, cattiveria e omicidio. I genitori se ne accorgono e cominciano a portarlo da medici e ipnotisti fino a scoprire la verità. Sembra una trama da L’innocenza del diavolo incontra Bob di Twin Peaks, invece è un film che vorrebbe essere morale ma riesce solo a mostrare una buona perversione riguardo al dolore (che è oro per questo genere).
The Prodigy è insomma il tipo di film così poco sottile nel maneggiare i suoi temi che non stupirebbe se il bambino ad un certo punto parlasse con un vocione demoniaco.
Spaventato all’idea di non spaventare il film di Nicholas McCarthy (che, va detto, davvero non è il tipo di produzione che viene aiutato dal doppiaggio e dal doppiaggese) impenna la colonna sonora sulle sue frasi più inquietanti (così scontate e poco efficaci da sembrare prese dal manuale delle frasi inquietanti) con il solo risultato di attutirne la potenza e avvicinarsi alla parodia di se stesso, ha un’idea senza senso di elite e intellettuali (la scuola privata è grottesca, la musica classica e il cubo di rubik sono il segno dell’intelligenza, mancano solo gli scacchi).
Trattando così l’idea molto nota del bambino demoniaco c’è ben poco da avere paura e, come spesso capita nei brutti horror, il fallimento del film arriva cocente nel momento in cui per limiti di irritazione invece di parteggiare per i protagonisti finiamo a disprezzarli.
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