Più che un film Una Giusta Causa è un progetto con diverse finalità. È una storia politica sulla conquista del diritti all’uguaglianza di uomini e donne davanti alla legge, è un veicolo per Felicity Jones (che interpreta una persona realmente esistita, dettaglio sempre importante per una carriera) ed è una produzione che ambisce ad arrivare più in là di quel che merita in virtù del suo tema. Tutto questo invece che essere nascosto nei meandri di un film interessante di per sé, è svelato da una sceneggiatura così generica, impostata e ingabbiata nella struttura accademica del cinema americano, da non contenere nemmeno una battuta che possa suonare personale o sentita.
Questo non significa che sia necessariamente un brutto film Una Giusta Causa, è corretto, scorrevole (per quanto un filo lungo) e così usuale da provocare quel piacevole massaggio nel retro del cervello dato dalla ripetizione di ciò che già conosciamo con solo piccoli e limitati elementi di novità.
Nella cornice del novecento americano una donna, realmente esistita (non mancheremo di vederlo alla fine prima dei rituali cartelli che spiegano cosa sia poi successo ai protagonisti), cerca di diventare avvocato ma finisce per diventare un accademico, la società non le consente di fare la professione perché donna. Al massimo potrà insegnare. Dopo anni di insegnamento proprio del diritto sulla parità di genere le capiterà l’occasione di una causa fatta a misura di cambiamento, vincendola si può dimostrare che la legge americana sbaglia a discriminare tra uomo e donna.
Non c’è scampo dall’angolatura e dalla lettura della storia che il film vuole imporre. Estremizzando un conflitto reale che tutti possono riconoscere (quello affrontato dalle donne che cercano di farsi strada autonomamente in un mondo di uomini) il film dichiara subito di non voler rappresentare la realtà del nostro mondo ma di volerne parlare tramite la realtà dei film. Sceglie di lavorare non sul realismo ma sulla retorica hollywoodiana Una Giusta Causa e il suo peccato è di farlo senza inventare niente. Ad esempio le svolte nella causa arriveranno dalla vita privata, qualcosa detto da un familiare farà scattare la protagonista che grazie a quello capirà come risolvere un problema, una frase importante sarà ripetuta più volte per farne capire l’importanza al pubblico, verrà richiamata una vecchia gloria (Kathy Bates) per dare prospettiva alla storia via dicendo.
Il manuale delle sceneggiature applicato senza lavorarci sopra dalla mano di un esordiente, Daniel Stiepleman.
Non aiutano un Armie Hammer scarso (la scena in cui si sente male grida vergogna) e una Felicity Jones così carica di senso di responsabilità da non osare niente e limitarsi al minimo. Mentre avrebbe potuto aiutare (e molto) il fatto che Una Giusta Causa cerca di allargare il suo tema senza fare necessariamente del femminismo ma abbozzando anche l’idea che parità di diritti vuol dire pure liberare gli uomini dai ruoli e dai compiti che la società li obbliga ad assumere (o evitare). Peccato che però il film anneghi tutto nella retorica creando un legame diretto tra parità di diritti e costituzione americana. Dal punto di vista di Una Giusta Causa la parità tra uomo e donna è cosa buona e giusta perché è costituzionale, è quanto di più americano ci possa essere. Che è un modo di spiegarlo al pubblico locale ma fa sorridere quello internazionale.
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