Mug è un film più piccolo rispetto a quello cui siamo abituati, in questo è un film d’altri tempi, dotato di un intento molto molto preciso che in 90 minuti va drittissimo per la sua strada senza perdere nemmeno un minuto.
Prende le mosse da una colossale statua del cristo redentore, molto simile a quella famosa di Rio De Janeiro (ma più grande), che è stata davvero eretta in Polonia. La storia è ambientata nella località di campagna in cui questa statua è in costruzione e coinvolge uno degli operai che ci stanno lavorando. C’è un incidente mortale che quasi lo uccide ma lo sfigura tanto che viene eseguito su di lui il primo trapianto di faccia del paese. L’operazione va bene ma lui non è esattamente una meraviglia.
In questa comunità così religiosa c’è pochissima carità e Malgorzata Szumowska (che scrive e dirige) ce lo mostra con un espediente secco e deciso come il resto del film. Sono tutti gentili ma noi assistiamo anche alle sedute in confessionale dei vari cittadini in cui esce fuori la verità. La gente disprezza il “mostro”.
Sembra di assistere all’opposto logico di Luci Della Città di Charlie Chaplin in cui il vagabondo trova i soldi per un’operazione impossibile che ridà la vista alla fioraia cieca. C’è anche qui un’operazione salvifica ma non cambia la vita in meglio, anzi. Addirittura lo stato che ha promosso l’operazione non supporta tutta la riabilitazione e non paga i molti e costosi farmaci che il protagonista è obbligato a prendere. Tutti hanno due facce (Mug vuol dire muso), tutti guardano da un’altra parte (alla fine anche il Cristo lo dovrà fare per forza).
È un mondo da Tim Burton (del resto anche lo spunto della storia lo è) solo che non c’è quell’idealismo della lotta dei diversi in un luogo omologato, è molto più cupo e privo di morale.
Come Tim Burton infatti anche Mug deride apertamente la miseria umana che vede intorno al protagonista (qui ad essere deriso è però anche il protagonista), canzona i personaggi mentre racconta la vittoria della loro falsità, delle loro paure e di quell’atteggiamento così fastidiosamente predatorio della vita altrui che è l’allearsi di chi si percepisce come “normale”. Qui basta pochissimo, un’operazione al volto, a far passare una persona dal cerchio degli integrati a quello dei reietti.
Mug però, come i precedenti film della regista, ha il chiaro intento di ritrarre con spietata precisione la mentalità religiosa di provincia che alimenta la diffidenza insita negli uomini, ma lo fa senza livore. Questo è il grande salto di qualità che tenta, uno che come sempre nel cinema d’autore è una questione di sguardo e di approccio. Nonostante la storia faccia arrabbiare, nonostante ci sia di che accendersi il film non lo fa mai, anzi ha un tono ironico e quasi lieve (considerate le premesse della storia) che impressiona. Non è distacco ma la capacità di riflettere senza farsi trasportare dai sentimenti. È un procedimento che si rispecchia nella forma del film, nella massa di personaggi che costituiscono la comunità infatti Malgorzata Szumowska usa la messa a fuoco selettiva (spesso digitale e non analogica) per indirizzare l’attenzione dello spettatore su quel che vuole.
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