Più che essere un film su “noi”, questo secondo di Jordan Peele è un film su “loro”, gli altri, e la distanza che esiste tra quello che percepiamo come diverso, e la nostra vita, quanto ci metta paura e di cosa abbiamo paura. O forse no. Forse è un film più semplice, sul razzismo, su una famiglia di neri che si comportano da bianchi e ricevono la visita violenta delle loro anime sopite. O forse no. Forse Noi è un film sulla polarizzazione della ricchezza, sulle persone che ci lasciamo indietro nella corsa al benessere, che sono come noi ma vivono peggio di noi fino a che non decidono che è il momento di vendicarsi. Forse.
Più probabilmente è un film sul senso di paura che esiste nei confronti di chi non è diverso da noi ma sentiamo diverso da noi, sulla paura che ci minacci. Un film sui nostri anni davvero, in cui c’è sempre un altro a qualche parte da temere.
Per arrivare a questa scomoda sensazione Peele inizia a costruire l’alterità tramite dei cartelli. Ci sono dei tunnel sotto gli Stati Uniti, tantissimi tunnel, una metratura quadrata pazzesca. E nessuno sa perché. Vediamo poi una bambina ad una fiera entrare da sola in una casa degli specchi e incontrare, tra i molti suoi riflessi, quella che forse è un’altra come lei. Decenni dopo è adulta e ha una famiglia benestante con cui va a passare qualche giorno al mare proprio in quel luogo. Di notte riceveranno la visita violenta di 4 persone, in tutto e per tutto uguali a loro ma dall’atteggiamento primitivo, sociopatico, pericoloso. Sono presupposti elementari ma mescolati da Peele danno vita ad uno degli horror più importanti e clamorosi dei nostri anni. Una rivelazione se non ci fosse già stato Get Out a guadagnarsi quest'epiteto.
Jordan Peele centra (di nuovo) perfettamente il giusto grado di riluttanza con la quale rilasciare le informazioni sulla storia. Noi è un film angosciante nel senso migliore del termine, di cui si desidera sapere tutto proprio perché a fatica viene comunicato. E l’interesse non è solo dato dallo spunto di scrittura ma soprattutto dall’uso delle musiche (potenti, evocative, terrificanti), dai molti toni che si alternano nella recitazione, e da una fotografia sofisticata come poche volte capita negli horror.
La forza di Noi è insomma tutta nel rifiutare di essere come gli altri horror o thriller. Ad esempio Peele rifiuta i colpi improvvisi e annuncia tutte le comparsate. Nessuno appare a sorpresa per spaventare ma la tensione sta nel lento arrivare molto annunciato della minaccia. Anche la violenza non esplode mai di colpo ma è così rimandata che quando arriva, per quanto annunciata, è comunque inattesa.
C’è insomma una mano tecnica potentissima dietro il film (ed è incredibile considerato che è il secondo lungometraggio di un comico), che nonostante non voglia copiare nessuno dimostra di conoscere la storia del genere. Ad esempio usa i disegni dei bambini rivelatori come in Profondo Rosso e cita due volte Lo Squalo (è su una maglietta e in spiaggia c’è una scena simile a quella dello sceriffo Brody che cerca di guardare in mare mentre una persona gli sta parlando). Come i registi più grandi Peele sembra non avere maestri (anche se in realtà è solo che li rimescola bene) e partorire dal nulla le proprie idee. Ha la rarissima capacità di acchiappare la paura non dagli esiti (il sangue, lo sparo, i ghigni) ma alla radice (il senso di minaccia, il doppio scuro, le immagini agghiaccianti del finale).
È questione di tecnica ma al di là di essa c’è anche un’idea potentissima di terrore recondito, il doppio che viene dall’espressionismo tedesco, la nostra natura profonda, animalesca, sopita, che parla come un grugnito ed esce da una casa degli specchi sulla quale c’è scritto (un po’ didascalicamente) “Trova te stesso”. Chi siano questi altri è illustrato ma non spiegato, lasciando una voragine che sta allo spettatore sforzarsi di riempire con le proprie idee, supposizioni e suggestioni.
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