Quella di Goldstone è esattamente la direzione che il cinema poliziesco contemporaneo deve intraprendere, quella che meglio gli consente di dire qualcosa, quella che più sembra avere un senso per prendere le distanze da quel che sono diventati ad oggi gli altri generi del cinema, e infine quella che meglio si adatta al suo specifico in un momento in cui tutti gli altri generi sembrano saccheggiare le invenzioni del poliziesco. Silenzioso, rarefatto ma anche deciso, duro e tutto d’un pezzo ad un livello quasi maniacale, Goldstone è scritto e diretto da Ivan Sen sognando di essere Taylor Sheridan (re contemporaneo del genere).
E nonostante quanto scritto, purtroppo, non è eccezionale.
È evidente che Sen ha tutti i riferimenti giusti e ha chiaro in testa cosa vada fatto, le intenzioni sono effettivamente impeccabili e incriticabili. L’esecuzione invece lo è.
Il suo problema è che non riesce a centrare quell’equilibrio asciutto e quella capacità di non perdersi in chiacchiere. Invece si perde molto in paesaggi e contemplazioni, indugia e si compiace un filo di troppo perdendo l’appuntamento con quel rigore estremo che dà senso e coerenza alle parabole silenti di uomini costretti ad andare alla radice di cosa voglia dire essere uomo nelle lande deserte. Raccontare quelli che sono archetipi della schiena dritta con un atteggiamento compiaciuto è una contraddizione così evidente da stonare.
Un buon esempio di questo lo si ha nel dialogo con la prostituta asiatica (quella del film è una storia che coinvolge un’indagine che scoperchia un’orrenda tratta provinciale in cui tutti sono coinvolti per convenienza e che viene tenuta segreta a colpi di cadaveri seppelliti nel deserto), in quello scambio il film cerca la poesia delle poche parole e dei sentimenti malinconici, della solitudine tenuta dentro nelle terre selvagge in cui tutti, anche le donne, devono essere dure per resistere. Non un archetipo quindi ma un clichè, frasi fatte e un desiderio malcelato di acchiappare lo spettatore invece che andare dritto per la propria strada.
Più la storia avanza più i conflitti si fanno elementari ed emergono le scelte poco raffinate (su tutte uno score molto banale, usato in maniera banale), che cerca di appigliarsi agli attori. Aaron Pedersen e Alex Russell compongono bene la coppia di poliziotti che si intende senza parlare, dall’obiettivo comune e la provenienza diversa, uomini fino al midollo che non hanno bisogno di dirselo che per fare la cosa giusta sono pronti anche a morire, mentre a Jackie Weaver viene semplicemente chiesto di replicare il suo ruolo cardine in Animal Kingdom.
È insomma facile voler bene a Goldstone ma guardandosi in faccia onestamente e avendo l’onestà di ammettere i suoi difetti è anche chiaro che questo film non è qui per rimanere.
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