Aperto e chiuso dal rimpianto per un’altra epoca, un’altra età e un tempo ormai morto che è sempre migliore dell’attuale, No. 7 Cherry Lane è un’apologia della Hong Kong del 1967, da subito presentata come un mondo perfetto, che non tornerà più. I richiami a Proust (insistiti ed esagerati) confermano la passione di Yonfan per il ricordo e per quella patina attraverso la quale migliora tutto, per la giovinezza e il suo statuto mitologico.
Il rimpianto del resto era l’elemento determinante già dei suoi primi lavori come Love Romance e di quelli della Hong Kong anni ‘90 come Beauty. Il concetto di “anni d’oro”, introdotto già dal cartello iniziale, implica che saranno superati, che non possono essere uguagliati, c’è sempre l’impressione di stare guardando l’apice di un paese e delle vite dei personaggi. E in questa epoca d’oro uno studente bellissimo dà lezione ad una provocante minorenne che si innamora di lui, anche se lui ha un’attrazione per la madre di lei, più matura e austera con la quale condividere anche passioni intellettuali e interessi artistici.
Senza mai farsi forza del mezzo usato (l’animazione) Yonfan replica il suo cinema dal vero senza fantasia, scrivendo e dirigendo un’elegia dell’eleganza piena di riferimenti europei, in cui l’idealizzazoine dei personaggi è pura kalokagazia. Bellezza ed eleganza caratterizzano i personaggi positivi, mentre infamità, fisici infelici e abbigliamenti dozzinali quelli più viscidi. Per Yonfan conta sapersi muovere, essere belli, avere gusto sia nel vestire che nei consumi culturali e No. 7 Cherry Lane è qui a spiegarlo e mostrarlo. Non solo c’è un mondo idealizzato ma Yonfan include il suo film in questo club elitario di migliori.
E in questa apologia del proprio gusto, dei film che piacciono a lui (ridicolmente raccontati dalla verbosissima, invadente e noiosa voce fuoricampo mentre i personaggi li vedono al cinema), dei libri che ama e dell’epoca che sogna, manca totalmente un’idea visiva. La produzione è sgangherata, il tratto elementare e l’animazione così stentata da sembrare il frutto di studenti poco dotati di una classe al primo anno di una scuola d’animazione privata italiana. Tutto sarebbe però altamente tollerabile se almeno con questi pochi mezzi il film mostrasse capacità di astrazione, sintesi e immaginazione che giustifichino il mezzo animato.
Invece ancora una volta la parte interessante in un suo film è la maniera in cui usa gli abiti accollati, eleganti e formali come gabbia non per fermare la pulsione sessuale ma per esaltarla. L’abito è ciò che afferma la forza del corpo mentre lo nasconde, lo strumento che consente l’atto di spogliarsi e quindi di rivelazione. Anche se stavolta la maniera in cui questa tensione viene mostrata sono stucchevoli scenette tra cui un delirante sogno bagnato che sembra un delirio lynchano senza talento tra gatti fluttuanti (il cui verso è doppiato da un uomo), sesso, sogni borghesi e attaccapanni leccati.
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