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29.10.19

Dolemite Is My Name (id., 2019)
di Craig Brewster

Non è Ed Wood e non è nemmeno Tommy Wiseau, non è un Disaster Artist e non è il simbolo del cinema peggiore possibile, Rudy Ray Moore era un comico, anche di successo, che ad un certo punto decise di fare un film sul personaggio che gli aveva dato fama: Dolemite. Dopo una gavetta che sembrava non avere fine aveva deciso di autoprodursi i primi vinili di stand up con il personaggio di Dolemite, in quella maniera era emerso e aveva conquistato l’attenzione delle record company. Tuttavia voleva di più, voleva diventare una star nazionale e a questo gli serviva il cinema, ma di nuovo le major non erano interessate a produrgli un film (nemmeno le etichette più indipendenti che producevano blaxploitation) e così, anche in quel caso fece da solo, senza nessuna conoscenza o esperienza nel settore.
Il risultato fu un film amatoriale per fattura, assurdo per scrittura, esilarante per esito, che tuttavia fu un successo (Dolemite avrebbe avuto altri 11 film a sé dedicati). Questa storia dunque non è quella di un fallimento che dice molto sulla società e sui sogni disperati che infonde, è una storia di successo al di là dell’opinione degli esperti. È molto più Be Kind Rewind che Disaster Artist, il cinema è qualcosa che facciamo tra di noi e per noi.

Dolemite Is My Name è un progetto a cui Eddie Murphy teneva molto, che ha visto la luce su Netflix (il che già è significativo) e che pur seguendo alcune delle direttrici di Ed Wood e The Disaster Artist (del primo ha il continuo entusiasmo per idee assurde, la demenziale condizione in cui girava e la creazione di una specie di banda/famiglia di freak intorno a sé, mentre del secondo ha i sogni di grandezza senza senso), procede per binari autonomi. È la storia di uno dei molti sogni americani che è possibile conquistare, a patto di avere tantissima intraprendenza e una volontà di ferro. Già questo presupposto agiografico lo rende molto meno forte dei due film citati e molto più instradato sui binari di conferma di ciò che il cinema americano afferma più spesso.
E non basta il fatto che Eddie Murphy sia tornato a desiderare di fare cinema davvero, non basta che il team di realizzazione sia obiettivamente affiatato e ben coordinato da Craig Brewster, non basta anche un cast di ottimi comprimari per sollevarlo dalla propria medietà.

Divertente in molti tratti, convenzionale in altri e ben poco capace di parlare di altro se non della storia di Rudy Ray Moore, Dolemite Is My Name sceglie di essere molto più un biopic convenzionale che un vero film sul cinema. Come se non avesse interesse nelle sue componenti più promettenti e come se non volesse approfondire tutto quello che di più malato c’è in questa storia preferisce surfare in superficie e cavalcare una visione edulcorata di una storia che, evidentemente, è piena di zone grigie. Che fine hanno fatto i barboni cui Moore si è ispirato? Che rapporto aveva con il pubblico? Rideva con lui o di lui? E quanto ne era consapevole? Che è successo quando ha superato la curva di approvazione e tutto è degenerato?
A Dolemite Is My Name non interessa, anzi gli preferisce le grandi scene di successo, l’arringa alla folla e i divertenti espedienti attraverso i quali chi non sa fare film riesce a farne uno, la strigliata al vanitoso regista interpretato da Wesley Snipes perché si adegui allo spirito di sacrificio e smetta di fare la prima donna. La strada più breve per celebrare qualcuno è parlarne bene, la migliore è creare un ritratto complesso che lo rende paradigmatico, Dolemite Is My Name fa la prima cosa e non la seconda.

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