C’è una commedia anni ‘30 che si può scorgere in controluce guardando Un giorno di pioggia a New York, una di quelle in cui il protagonista è James Stewart o Cary Grant e accanto a lui, a bacchettarlo e dargli pan per focaccia ma infine a baciarlo, c’è Katherine Hepburn.
Uno studente universitario originario di New York torna per un weekend a Manhattan con la sua fidanzata. Lei deve fare un’intervista per il giornale dell’università, lui ha mille piani di locali in cui andare, luoghi che ama in cui passare il tempo e concertini da andare ad ascoltare, ha una fame stupenda di consumare Manhattan, di godersela, godere i suoi colori grigi (che stacco che c’è tra le prime scene al campus e l’arrivo a New York) e i suoi scorci, i suoi parchi e le sue strade. La tensione del suo segmento sta tutta nella fatica che farà a consumarla.
Accadrà infatti che nonostante i piani i due non riusciranno a stare insieme e vivranno due avventure parallele. Lei (Elle Fanning) sarà presa in una storia tipo Sceicco Bianco in cui entra in contatto con i suoi miti e il dorato mondo dello spettacolo che nasconde piccolezze, stupidità, infantilismi e nulla di quelle aspirazioni o quelle astrazioni che lei sognava. Addirittura, benché Allen non possa certo saperlo, lei finirà a trovarsi in una scena da film dei Vanzina, fatta di mogli che rientrano all’improvviso e amanti in mutande nascoste goffamente e in fretta. Lui (Timothée Chalamet) cercherà invece per tutto il tempo di incontrarla, imbattendosi però nella sorella di una vecchia fiamma (Selena Gomez), molto più newyorchese della fidanzata, più spregiudicata e intellettualmente affilata.
Ci sono insomma le due mitologie di New York, quella della città di artisti che finisce male, e quella preferita di Allen, delle grandi case e delle grandi famiglie, le escort per bene e il terreno fertile per la soddisfazione intellettuale. C’è una parte che innalza e una che abbassa, insieme fanno il misto di questa città in cui tutto può cambiare da un momento all’altro a seconda che arrivi la pioggia o no. Basta uno scroscione per fomentare un bacio, basta un cambio di luce per cambiare una scena (una soluzione che già Storaro e Allen avevano iniziato a sperimentare in La ruota delle meraviglie e Cafè Society).
Non ci sono grumi, non ci sono avvallamenti, non ci sono intoppi. Un giorno di pioggia a New York è una commedia sofisticata di una semplicità disarmante eseguita con un grado tale di complessità da riuscire a toccare una vetta nuova nel comparto dell’unione tra personaggio e paesaggio. Non è una lettera d’amore a New York ma il racconto di come le persone possano a cambiare a seconda dei luoghi che attraversano e come un posto possa influire nelle singole vite, sconvolgerle, fomentarle, aiutarle o renderle più difficili. È un tema che si trova quasi sempre nel cinema di Woody Allen ma è incredibile come trovi ancora una volta in New York (per l’ennesima volta, eppure sembra la prima) una spalla perfetta e che ha soprattutto nella collaborazione con Storaro l’arma chiave per trasfigurare la realtà in pura mitologia del cinema. Che poi è il sogno di Allen, ciò che dona al film quell’equilibrio leggero.
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