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24.2.20

Volevo Nascondermi (id., 2020)
di Giorgio Diritti

È ovvio fin dalla cartellonistica, fin dalle prime immagini, fin dai trailer che non sarà effettivamente la parte di Antonio Ligabue quella sulla quale il film si gioca la propria credibilità e la propria sostanza. Troppo buono è stato il lavoro fatto da Elio Germano e con Elio Germano, troppo curato è il personaggio e troppo calibrato è il ritratto di un uomo repellente in un film che racconta quella repellenza. Il problema è semmai tutto il resto.

Volevo Nascondermi inizia cercando di spezzettare il racconto, schiacciando età adulta e infantile, andando avanti e indietro nel tempo di continuo come per raccontare contemporaneamente cause e conseguenze di una vita da reietto, menato, umiliato e traumatizzato. Non è montato male, anzi, ma è poco giustificato, non ne sentiamo mai il bisogno, non ne capiamo davvero la finalità.
Tutto però si calma quando nella vita di Ligabue arriva la pittura, quando cioè qualcuno trova in lui un artista, lo scopre e comincia a cambiargli la vita, a foraggiarlo e a lavorare sulla sua immagine e le sue opere perché si affermi.

Non sarà mai raccontato e quindi non sarà mai chiaro quanti dei soldi prodotti dalla sua arte andranno davvero a lui, quanto opaco o chiaro sia stato il sistema attraverso il quale veniva mantenuto, e questo perché il film è interessato ad altro. Passiamo attraverso la vita da pittore di Ligabue senza capire molto, come lui stesso, ma abbiamo ben chiaro il modo in cui lui la viva il suo nuovo status come una rivincita e una possibilità di affermarsi nonostante il carattere, le tare, i problemi e la bruttezza.

È allora quando il film deve cominciare a tirare le somme di tutto questo che comincia a scricchiolare. Quando è il momento di leggere questa vita o di chiedersi che storia si stia raccontando ad arrivare la grande fatica. Rifugiato continuamente negli interni, negli scenari, nella fotografia e nell’interpretazione di Germano e più in generale nella tecnica, Volevo Nascondermi fatica a dare una lettura degli eventi e risulta solo come una buona esposizione di una serie di fatti necessariamente incompleti.

Tanto che ad un certo punto il protagonista ad un certo punto sembra essere non più Ligabue ma la provincia in cui vive, con il suo benessere privo di fronzoli e le sue piccinerie, con i suoi limiti ma anche con la serenità delle tagliatelle e delle officine, la bonarietà degli anziani e le donne di una volta, femminili e riservate. Un mondo ben ricostruito e molto fedele in cui Ligabue è un freak accettato (non è chiaro se per i soldi che elargisce, per lo status che ha o per bonarietà). Che non è molto.

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