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23.3.20

Il Buco (El Hoyo, 2019) di Galder Gaztelu-Urrutia

Sottile di certo non è Il Buco di Galder Gaztelu-Urrutia, film che mette il suo protagonista in una specie di prigione/centro di detenzione sviluppato in verticale. Ogni stanza ha un buco al centro, una tromba senza scale che attraversa tutte le più di 200 stanze messe una sopra l’altra. Ogni stanza due prigionieri, ogni giorno scende attraverso il buco dalla prima fino all’ultima un gigantesco bancone pieno di vivande che rimane pochi secondi fermo su ogni piano. Ce ne sarebbe per tutti ma la voracità di chi sta nei primi piani fa sì che già al piano 48 sia rimasto poco o niente. Vi ricorda qualcosa? Chi è in cima consuma troppo senza tenere conto del fatto che se invece si limitasse ce ne sarebbe per tutti. Diversamente dal nostro mondo però i prigionieri ogni mese cambiano piano. Ci si può svegliare al piano 10 e mangiare da re come svegliarsi al 150 e fare la fame, finendo nel cannibalismo o nel suicidio.
Il nostro protagonista attraverserà tre compagni di cella diversi e differenti piani, passando dall’idealismo al cinismo fino alla sublimazione di ogni ideologia.

Ancora ancora forse in un mondo pre-Bong Joon-ho un film come Il Buco poteva avere un senso, come del resto lo ebbe The Cube nel 1999, film a cui questo deve moltissimo in termini di concezione, scenografia e allegoria, almeno tanto quanto deve a Snowpiercer per la sua allegoria che trasforma l’orizzontalità dei vagoni nella verticalità dei piani. Ma oggi davvero fa solo che sorridere. Il protagonista entra nel carcere verticale portando con sé un libro (anzi IL libro, Don Chisciotte della Mancia, primo romanzo moderno) e il suo primo compagno è entrato con un coltello. Ripetiamo: uno ha la cultura con sé, l’altro la violenza. I suoi primi tentativi saranno di convincere chi è sopra e chi è sotto a non consumare tutto ma lasciarlo per gli altri, ma riceverà solo insulti in risposta perchè, gli viene spiegato, chi sta in alto “odia i comunisti” e chi è sotto “è uno stronzo”, anche se il mese prossimo la situazione si potrebbe invertire.

Per quanto faccia abbastanza impressione il tempismo con cui Netflix porta nelle case in quarantena del mondo la storia di qualcuno che assalta tutte le risorse per timore di non averne poi, Il Buco sbatte talmente in faccia allo spettatore la sua allegoria impalpabile che è quasi fastidioso. E anche la trama che vede il protagonista intento a sopravvivere ha un’ambizione smodata di elevazione e rarefazione più si avvicina alla fine, assolutamente inadeguata alle possibilità di una scrittura così insicura da dover urlare ogni cosa.
Difficile immaginare una versione più dichiarata di un attacco al capitalismo ma purtroppo è anche difficile immaginare una versione più blanda e inoffensiva di un simile attacco.

Quando 11 anni fa Neil Blomkamp con District 9 creava un’allegoria ugualmente sottile e chiara, lo faceva partendo dall’idea che la situazione debba essere allegorica ma non per forza anche quel che fanno i personaggi, altrimenti tutto viene raddoppiato ed esagerato. Il Buco raddoppia e triplica, cerca di fare di ogni gesto un paradigma, di ogni personaggio una metafora e un simbolo, in una specie di eccesso di zelo che ricorda un’interrogazione della scuola media in cui ogni singolo elemento ha una e una sola spiegazione o ragion d’essere. L’obiettivo è ricchezza espressiva, il risultato è una lettura unica cioè il massimo della povertà.

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