Quanti di noi ancora credono in Ben Affleck? Io sono uno di quelli ma credo ancora di più in Gavin O’Connor, regista di quel capolavoro che 9 anni fa è stato Warrior (l’apice di una carriera disseminata di ottimi film) che poi si è un po’ perso e qui torna ad un film di sport adulto e maturo.
The Way Back è un film che in altre epoche e altre mani poteva tranquillamente essere un film per teenager sullo sport, con una squadra di pallacanestro tra cui ci sono il ragazzo con difficili rapporti paterni, il donnaiolo, il simpatico ciccione, lo sbandato difficile da irreggimentare… Tutti uniti da un nuovo coach dal grande passato e anch’esso con dei problemi, nel suo caso legati al bere. Invece nella mani sapienti di O’Connor e dello sceneggiatore Brad Ingelsby diventa un film maturo, plumbeo e durissimo sulla seconda occasione di un uomo che lotta per tornare dall’abisso.
Quello in cui O’Connor eccelle, cioè l’uso della fatica sportiva per raccontare il miglioramento umano, qui diventa la risalita di un alcolizzato, interpretata da un alcolizzato vero, Ben Affleck, in quel periodo in rehab e in ripresa da un periodo buio della sua vita. Ha un fisico gonfio, rovinato, visivamente massacrato dall’alcol nonostante la patina hollywoodiana. E tantissimo del film va in quella direzione. Alcuni dettagli e soluzioni che ci raccontano l’abitudine a bere impressionano (la nicchia nella doccia per la birra, la maniera in cui le apre e le mette in freezer come se lo facesse da decenni, come gradualmente si devasti nei bar). Contrariamente ai mille ubriachi sofferenti visti nei film americani, stavolta finalmente lo sentiamo il problema, tramite i dettagli e un’interpretazione (evidentemente) curata, sentiamo l’abitudine e i giorni buttati di un uomo che (scopriremo) oltre al grande passato da star della pallacanestro ha anche una tragedia dietro di sé.
Messo così Tornare A Vincere è davvero un gran film, uno in cui O’Connor riesce a rinnovare con dolcezza gli stereotipi del cinema sportivo, inventando nuovi modi per presentare le parabole usuali (una squadra di sconfitti che si rimette insieme e inizia a vincere credendo in se stessa), con un’attenzione maniacale alle dinamiche sportive e come esse svelino i personaggi.
C’è un lavoro sui turni di parola che è tutto. Nelle conversazioni della squadra di volta in volta O’Connor sceglie su chi indugiare per un secondo di più, chi lasciare sui piani d’ascolto e così ci indirizza nei suoi confronti, nei drammi e nelle contraddizioni di quel particolare giocatore, guidando la lettura delle partite. Partite che ha il coraggio spesso di tagliare radicalmente mettendo solo il punteggio, un’idea fantastica usata bene per sorprendere e spiazzare che probabilmente rivedremo in altri film. Così facendo integra in modi nuovi storia, personaggi e situazione sportiva, mantenendo la consueta capacità indubbia che ha di filmare l’azione confusa con una chiarezza esemplare.
Ma come si diceva Tornare A Vincere “messo così” è gran bel film. Solo che il film ad un certo punto decide di essere altro. Interrompe la trama sportiva ad un passo dal gran finale, preferendo suggerire che l’arco narrativo è terminato a prescindere dall’esito delle finali e concentrarsi sul dramma dell’allenatore, sui suoi alti e bassi, sulla fatica che costa “tornare a vincere” e come questa sia un’azione che va compiuta ben più di una volta. È uno slittamento che affossa di colpo tutto e chiude frettolosamente un film che invece stava volando altissimo. Evidentemente la ripresa da una tragedia e dal baratro alcolico è il cuore del film fin dall’inizio e il basket una scusa, ma l’accetta che cala con forza interrompendo quel climax e scollando la storia personale da quella della squadra e dello sport è una mazzata resa offesa dall’inquadratura finale, un totale falso come il suo cielo digitale.
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