Non possiamo sapere se Christoph Waltz volesse davvero esordire alla regia o se gli interessasse di più fare il regista così da poter prendere se stesso in un ruolo diverso dal solito all’interno di una storia che gli interessa. In Georgetown è infatti un ruvido e scomodo omino che si aggira nel mondo diplomatico, vivendo di menzogne ed espedienti. La sua svolta è agganciare e sposare una donna decisamente più anziana di lui, una ex giornalista di settore molto inserita a Georgetown, il sobborgo della diplomazia di Washington. Tramite lei tenta la sua scalata a quel mondo in cui non riesce ad entrare da sé. Ed è una storia vera.
Ci sono tantissimi elementi di interesse per un attore in questo personaggio ambiguo, pieno di sfumature di cui scopriamo qualcosa di nuovo ogni 5 minuti, qualcosa che la recitazione aveva nascosto ma la trama svela, e che ci sorprende di continuo perché è lo stesso personaggio a recitare parti diverse nel film. È un grandissimo esercizio, molto complicato, ma che non si traduce mai in una grande interpretazione perché nonostante necessiti di sfumature delicatissime (che Waltz matematicamente non sbaglia), non è scritto bene.
E come spesso capita non è l’assolo a dare anima ad una performance ma la continuità. È la maniera in cui quella performance lavora in armonia con il resto del film ad esaltarla o sfidarla a dare il meglio.
Georgetown invece è molto convenzionale su tutti gli aspetti, è estremamente corretto e ben scritto ma privo di vita. È evidente che Waltz da regista si preoccupa più che altro di servire la sceneggiatura e per il resto non ha idee. Il film copia le luci, gli interni, gli abiti, le palette di colori dove può, molto spesso dagli standard per il cinema di politica americano (standard, ancora una volta, creato e fissato dalla tv con House Of Cards, fatto di interni grigi, colori freddi e color correction leggermente blu). Addirittura anche per le parti in Medio Oriente cerca di creare l’atmosfera di quei posti cambiando grammatica delle inquadrature per ricalcare quella dei film di guerra d’ambientazione mediorientali, tutta focali lunghe e giallo.
Non è solo che Walz, come regista, trascura gli aspetti della messa in scena che non sono la recitazione, è che li delega senza valorizzare le proprie maestranze (o senza averle potute scegliere del livello adeguato). Così alla fine Georgetown non riesce a non avere il sapore di un film ordinario, totalmente rivolto all’indietro, che non sa bene cosa fare ma ha il budget giusto per assumere onestissimi mestieranti. Certo ci sono dei momenti, quando Waltz duetta con Vanessa Redgrave (diretta bene e all’altezza del proprio nome), in cui il film sembra virare dalle parti di Il Servo di Joseph Losey, cercando quella strana forma di convivenza tra due persone il cui rapporto è sbilanciato in un interno stretto che li trasfigura da esseri umani a mostri. Ma sono attimi di un film che per il resto non ci convince mai di avere qualcosa da dire sulla storia che racconta e quindi non coinvolge.
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