È una fissa di Giulio Manfredonia quella dei film in cui i più deboli si alleano per creare un business nonostante lo scherno dei più forti. Già con Si può fare aveva raccontato l'impresa (tratta da una storia vera) di un gruppo di matti che formano una piccola ditta edile e, malgrado il poco sostegno statale, si reinseriscono nella vita civile attraverso un'insanabile buona volontà che abbatte ogni barriera. Il tutto reso credibile e accettabile dall'umorismo. Dietro l'operazione c'era e c'è anche ora Fabio Bonifacci.
La stessa forza propulsiva (con il medesimo idealismo naive e il medesimo atteggiamento da commedia che avvicina la storia al favolismo) anima La nostra terra, in cui un pugno di persone oneste del meridione, coadiuvate da un uomo integerrimo del nord (che rappresenta nell'immaginario collettivo il senso civico), mette in piedi un business a partire da terreni sottratti alla mafia.
Alla base di La nostra terra c'è quindi il medesimo contrasto che anima buona parte dei film italiani degli ultimi anni, lo stesso di Benvenuti al Sud cioè quello tra il meridione e il nord come metafora del passato e del presente del nostro paese, la modernità contrapposta alla tradizione. Nel caso specifico la tradizione è l'atteggiamento esterno alla legalità (che nei casi peggiori è mafia e nei casi migliori è solo sfiducia per le regole) e la modernità è rappresentata dal padroneggiamento delle nozioni e dei sistemi dello stato (quindi dal possesso di informazioni, cosa involontariamente davvero molto moderna). Non manca ovviamente la più ovvia contrapposizione tra vita algida e spirito passionale, tra distanza formale e confidenza empatica con inevitabile vittoria della seconda.
Come in qualsiasi commedia italiana la vita tradizionale batte quella moderna, un giorno ci siederemo e cercheremo di capire perchè non facciamo che parlare dell'esigenza di modernizzare il nostro paese (specie il meridione) quando non facciamo che raccontarci storie in cui la mancata modernizzazione migliora le vite dei personaggi.
Quel che è però veramente fastidioso in La nostra terra non è questo (che è solo ordinario) quanto la maniera in cui una storia edificante di opposizione alla mafia e di coraggio nel rischiare in prima persona, per affermare anche nel piccolo i concetti di giustizia, sia trattata con la ricercata naivitè della peggior televisione. Il film seriamente (ripeto: seriamente) disegna un boss mafioso da macchietta, messo nel sacco da chi non ne sa nulla di malavita, reticente a dimostrarsi violento ed efferato come la sua fama racconta e ridicolo nella maniera in cui affronta le questioni di terreno con i protagonisti. Un pupazzo accettabile solo in un racconto idealizzato, cosa che La nostra terra non vuole essere, anzi il film mira all'affermazione dei più concreti valori civili e si aggancia alla realtà delle cooperative che gestiscono i terreni confiscati alla mafia. Non è una favola ma una storia che si propone di mettere in scena e romanzare cose vere privandole di ogni asperità (il fatto che sia una commedia riguarda il tono non gli elementi narrati).
Manfredonia e Bonifacci in sostanza presentano un male titanico (un furioso omicida, spietato speculatore e acuto stratega) con il fine di spaventare e confermare la diabolica cattiveria mafiosa ma al dunque lo fanno agire con una tale stupidità da rendere efficaci anche i piani più semplici ed ordinari orditi dai protagonisti. La mafia battuta con espedienti da scuola media, l'illegalità sgominata in pochi giorni, la mentalità mafiosa sradicata con due buone azioni e poi la pretesa di mettere in scena storie che accadono realmente. Pura follia da RaiUno fatta ingoiare dalla consueta scrittura scorrevole e divertente di Bonifacci.
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