Non sono le parole il forte di Zhao Liang, i pochissimi interventi della voce fuoricampo in Behemoth lo ribadiscono. Oltre a dare qualche linea interpretativa che ricalca l'inferno dantesco ma con un finale che nega il paradiso e lo sublima paradossalmente in un altro inferno, non più caldo e mortuario ma silenzioso e funereo, il regista riempie il film di una poesia spicciola. Invece le immagini che monta con una cura maniacale fanno il contrario, a colpi di sobrietà suscitano associazioni realmente poetiche, a colpi di bellezza e composizione cromatica lavorano in profondità per costruire nella testa di chi guarda il vero inferno.
Ci sono delle cave in cui si estrae il carbone nella regione cinese della Mongolia interna, sono l'inferno dell'ecologia perchè là dove c'erano colline verdi ora c'è solo il grigio della terra ricca di carbone rivoltata, sono l'inferno degli uomini che ci lavorano, coperti di fumo e con i polmoni pieni di polveri e sono anche l'inferno del buon senso. Gli esseri umani che vivono e lavorano lì muoiono a migliaia. Il loro lavoro massacrante e i tempi ingiusti della loro vita sono il centro i Behemoth (nome di una bestia mitologica che si ciba di colline in fiore).
Situato tra l'occhio spietato di Werner Herzog, appassionato di incredibile e rivolto verso gli ambienti in cui la vita è un'impresa estrema, e lo stupore metropolitano finale che sembra provenire da Koyanisqaatsi, Behemoth chiede allo spettatore 70 minuti di ardua scalata fatti di immagini segmentate, spezzate, ricomposte e lunghi silenzi attraverso i quali navigare l'inferno dantesco di chi lavora il carbone. Ma quando si arriva in cima gli ultimi 20 minuti ricompensano di tutto, rilasciando tutto ciò che il film ha metodicamente accumulato.
Se all'inizio e lungo quasi tutto questo documentario la contemplazione delle vite degli uomini sembra l'elemento dominante, nel finale si fa strada lo stupore di cosa accade in luoghi che per noi sono all'estremo del mondo. Numeri che non sappiamo concepire, quantità difficili da immaginare e imprese dalle proporzioni gigantesche che non riusciamo a spiegarci, tutto illustrato con una capacità di riprendere e trasformare il reale in metaforico che impressionano. Il linguaggio di Zhao Liang, vale la pena dirlo un'altra volte, è davvero quello delle immagini.
Il risultato di tutto questo lavorare e morire, soffrire e perire è la più grande conquista dell'inutile vista al Festival di Venezia. La ricompensa finale per lo spettatore che non è uscito dalla sala è una carrellata tra camion, palazzi e un insperato ma non per questo salvifico sole, che dà senso a tutto ciò che si è visto fino a quel momento.
Behemoth, con tutta la sua ferma volontà di mettere alla prova lo spettatore è dunque senza dubbio uno dei documentari più significativi, coriacei e possenti che si possano immaginare di realizzare. Anche al netto della poesia ruffiana di Zhao Liang.
Nessun commento:
Posta un commento