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27.11.15

Brooklyn (id., 2015)
di John Crowley

FESTA MOBILE
TORINO FILM FEST
Alla fine Brooklyn è una tenera storia d'emigrazione, un film che esalta l'America, terra in cui letteralmente costruire il proprio futuro ed essere liberi, non solo a livello legale ma soprattutto dai legami con il passato, il paese dei nuovi inizi per eccellenza. Sarebbe davvero difficile non leggere in questa storia di una ragazza di provincia irlandese degli anni ‘50 mandata dalla famiglia a New York per fare una vita migliore, l'esaltazione della terra delle opportunità, ovvero la più fastidiosa e trita tra le retoriche possibili di Hollywood. Tuttavia sarebbe ancora più miope negare il piacere che questo melò poco tragico e molto intimista, solare e positivo, pieno d'ardimento e voglia di fare, è in grado di procurare.
C'è Nick Hornby dietro l'adattamento del romanzo di Colm Toibin, e si sente.

Siamo dalle parti della dolce elegia, della suadente nostalgia e dell’indomito coraggio dei “nostri nonni”. Perchè mentre il melo classico è slegato dall’attualità e si occupa di pura mitologia narrativa, Brooklyn richiama esplicitamente una certa era e una certa generazione come fondatrice delle basi attuali, mette nel suo racconto la prefigurazione di quello che sarà, le terre che saranno urbanizzate e il mondo a venire. Insomma è ambientato nel passato ma inevitabilmente parla di oggi. Per questo forse la storia di Eilis non è poi così tragica e colma di difficoltà come il suo genere prevederebbe, perché è solo uno specchio di una realtà maggiore.

Nonostante ciò è impressionante la maniera in cui Brooklyn riesce a lavorare sui sentimenti migliori, il modo in cui evitando i consueti eccessi del genere ricrea un periodo ma senza sfociare nel film-nostalgia al 100%. L’intento non è mai davvero commuovere ma creare una prossimità impressionante con una galleria di personaggi dai teneri sentimenti e la dolce voglia di un domani migliore.
Innegabile che questo sia il cinema più ruffiano possibile, perché in nessun momento gioca le carte spiacevoli o mira a suscitare nello spettatore i sentimenti più respingenti. Lo stesso sì deve essere ciechi o sordi per non arrendersi di fronte all’arte di un racconto fatto bene e di una parabola che, nella sua semplicità, nasconde la forza degli animi invincibili.

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