A qualcuno deve essere sembrato giusto mettere insieme il team di sceneggiatura dei film delle gemelle Olsen, di Exodus - Dei e Re e di Allegiant, con un regista di forte esperienza cannense, dallo stile e dalla messa in scena sofisticate, narratore per silenzi ed ellissi, ed affidare a loro il primo film per il cinema di Assassin’s Creed. Il risultato è un oggetto stranissimo riguardo il quale la stessa Ubisoft (proprietaria del marchio) ha dichiarato che è più importante che veicoli il nome del videogame cui si ispira che incassi. Una cosa tuttavia la si può dire con un buon grado di certezza: se Assassin’s Creed alla sua prima uscita è stato un videogame come non se n’erano mai visti, anche il film è un oggetto unico.
Come promesso l’avventura presentata sul grande schermo non è la riproposizione di nessuno tra gli episodi videoludici ma un’iterazione nuova, con una trama e un’ambientazione nuove (la Spagna dell’inquisizione). Il solito erede di un membro della setta degli assassini viene costretto nell’Animus, la tecnologia che lo rimette nei panni del suo antenato, per scoprire dove questi 600 anni fa abbia nascosto la Mela di Adamo. Puro Indiana Jones nelle premesse, con un artefatto del passato da trovare svelando una serie di misteri, un po’ Dan Brown nel finale (con il coinvolgimento di personaggi storici famosi e una grande complotto nel presente) ma niente di tutto ciò nei risultati. A Justin Kurzel proprio interessa altro, non vuole imbastire un’avventura per il suo carcerato diventato “assassino” ma cerca uno spettacolo visivo abbacinante. È probabile che in un blockbuster hollywoodiano non si sia mai parlato meno di quanto accade qui e a giudicare da quel che si dice quando si parla forse è meglio così.
Chi ha visto il suo Macbeth (sempre con Marion Cotillard e Michael Fassbender, una sorta di folle prova generale per questo film) ha già presente il più grande difetto di Kurzel, cioè quanto sia innamorato del proprio stile e delle proprie soluzioni. Sebbene all’appello non manchi nessun elemento fondamentale dei blockbuster, Kurzel li asciuga del senso che solitamente hanno per poi caricarli del suo fare contemplativo. Anche i combattimenti (momento topico del genere) non portano avanti la storia, non hanno una narrazione interna ma sono esibizione di stunt, illuminazione, fumo colorato e ralenti, addirittura i trasferimenti di coscienza sono uno showcase di brillanti idee, così come l’ambientazione d’epoca (caratteristica chiave della serie di videogame) è resa straniante dall’uso di colori sparati, fotografia ad altissimo contrasto e una passione per nascondere invece che mostrare i dettagli.
Kurzel desidera essere il Kurosawa di Ran o Kagemusha, creare un mondo inesistente a metà tra la suggestione teatrale e il ricordo, uno in cui muovere figure che sembrano percepirsi come la personalizzazione delle virtù o dei difetti umani (in questo è impeccabile la scelta di Jeremy Irons). L’impressione finale però è che davvero questa serie di scelte mal si adattino alla sceneggiatura, se non proprio a questo tipo di film. Non è scritto da nessuna parte che Assassin’s Creed (il film) debba somigliare ad Assassin’s Creed (la serie di videogiochi), anzi maggiore è la distanza migliore è il risultato solitamente, tuttavia qui le aspirazioni titaniche del regista vogliono mettere in luce se stesso facendo addirittura passare in secondo piano le star, per non dire la storia (confusa, pretestuosa e mal esposta), in un film che è un perla opaca a cui è difficilissimo volere bene.
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