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20.5.17

I Peggiori (2017)
di Vincenzo Alfieri

Inizia con una corsa a perdifiato I Peggiori, esattamente come Lo Chiamavano Jeeg Robot, film da cui mutua anche il risvolto da protesta sociale delle gesta dei protagonisti e la passione per trasferire uno spunto da fumetto in una realtà che non gli apparterrebbe, quasi solo per il gusto di godersi le conseguenze. Il film di Vincenzo Alfieri però ha anche la fotografia a doppia dominante di Smetto Quando Voglio e la stessa molla, il medesimo senso di sfiducia nelle possibilità di una vita normale in Italia.
Purtroppo i riferimenti a questi due film finiscono qui e per il resto I Peggiori è, a tutti gli effetti, una comune commedia italiana come se ne sono scritte negli ultimi anni passata attraverso un maquillage di fotografia (soprattutto) e costumi per farla apparire diversa. Non sappiamo come sia andata la produzione ma vedendo il film finito sembra quasi che qualcuno abbia imposto di trasformare il look di un film convenzionale in qualcosa di più alla moda senza mutarne la sostanza.

I Peggiori infatti non solo racconta una classica storia all’italiana, cioè quella di due squattrinati che si inventano un modo originale di sbarcare il lunario imitando (male) gli stranieri, si mascherano e per soldi svergognano con un video online chiunque gli venga commissionato dai committenti, ma lo fa anche senza muovere nemmeno un passo dalla scrittura delle commedie meno originali degli ultimi anni. Tutto il film infatti è ben poco “scritto” e molto lasciato agli attori, cioè è la recitazione dei protagonisti a portare avanti le gag, non la scrittura delle situazioni, è la loro mimica e la loro personalità (non quella dei loro personaggi) a costituire il gancio umoristico. A questo poi sono associati anche altri difetti tipici da film comico nostrano: l’avere personaggi indigenti, senza soldi e disperati che vivono in interni alto borghesi, l’uso magico del bambino che sa tutto di tecnologia, la tecnologia di consumo come fonte di ridicolo invece che parte della vita comune e la sempreverde presa in giro degli stranieri per come parlano italiano (o malissimo o troppo bene).

Pure volendo superare questo contrasto tra un film scritto tradizionalmente come molti altri, vestito però con un altro abito, I Peggiori ha diversi problemi interni alla trama (la motivazione che spinge i due a delinquere non è percepita come realmente pressante), di casting (i volti scelti, da Paolantoni a Biagio Izzo, tradiscono la vera vocazione del film e non sono mai davvero in parte), di azione (vorrebbe avere diverse scene di combattimento ma sono mostrate malissimo) e soprattutto di villain, un’imprenditrice perfida e fasulla come non vedevamo dal Faletti di Cemento Armato, una capace ad un certo punto di dire “Io li odio i bambini!” come potrebbe fare Gargamella.
Solo un dettaglio sembra far pensare al cinema migliore, cioè il peccato originale della madre dei due protagonisti che sembra gravare sulle loro vite senza che venga mai confessato. Ma è una goccia in un mare.

Eppure non è nemmeno questo quel che più stona e infastidisce di I Peggiori. Il film sembra infatti non rispondere davvero alla logica classica dell’eroismo da fumetto (con o senza i poteri) ovvero la vocazione di un singolo o un gruppo a raddrizzare dei torti agendo nell’ombra, ma più a quella della “giustizia alternativa” da televisione. Là dove non arriva la vera giustizia ci pensa lo svergognamento pubblico, che non cambia il crimine o il misfatto, non ribalta una situazione ma semplicemente espone la vittima al pubblico ludibrio. È esattamente la logica del Gabibbo o di Le Iene, delle trasmissioni televisive che vengono interpellate da chi pensa di aver subito un torto che la legge non sanerà. Non c’è nessuna forma di controllo se c’è stato davvero un illecito o un sopruso perché il ludibrio pubblico è l’unica cosa che conta, in tv come online, lo svergognamento. E I Peggiori sembra avallare in pieno questo modo di operare, privando i protagonisti di un sistema per appurare la “malvagità” delle proprie vittime fidandosi della vulgata di chi si professa vittima.

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