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20.3.18

Maria Maddalena (Mary Magdalene, 2018)
di Garth Davis

Che la religione ad oggi non possa essere raccontata al cinema aderendo alle dottrine istituzionali è quasi un dato di fatto. La trascendenza del Gesù di Zeffirelli è stata spazzata via da L’Ultima Tentazione di Cristo e tutti gli altri film che hanno iniziato a raccontare le figure cardine del cristianesimo come uomini tempestati dalla presenza divina dentro o attorno a sé. Il cinema oggi ha bisogno di raccontare la propria versione dei miti religiosi.
Forse anche per questo i film più religiosi sono rimasti quelli in cui si parla d’altro ma si respira una presenza superiore, come quelli di Malick.

Garth Davis si adegua ma con pochissima voglia, e nel suo Maria Maddalena cerca uno spiritualismo naturalista che poco ha a che vedere con la tradizione cattolica ma è più vicino all’animismo delle religioni moderne. È solo la prima di una lunghissima serie di tradimenti tramite i quali il film prova con grande semplicismo a ribaltare uno degli assunti chiave della mitologia cattolica con lo scopo di fare un’operazione politica: riraccontare il personaggio della donna peccatrice per eccellenza mettendolo in una posizione di valora, quella di tredicesimo apostolo, una donna che parlava per conto di Cristo. Di fatto un’altra possibile genesi del cristianesimo che avrebbe portato ad un’altra condizione della donna oggi.

È dunque abbastanza lontana dalla solita Maddalena quella interpretata con la consueta aria dimessa e soffice da Rooney Mara, restia da ogni strepito e sofferente senza clamori. Una donna forte piena di bisbigli e silenzi, che occupa un posto rilevante invece che marginale nella storia di Gesù (ma non sessuale non è quel tipo di film). Addirittura il film in un impeto didascalico Davis imputa a Pietro, padre fondatore della Chiesa (qui nero e peccatore come era nero e peccatore il Giuda di Jesus Christ Superstar), d’aver frainteso il messaggio di Gesù e aver messo lui le donne nel ruolo marginale che ora occupano nella gerarchia ecclesiastica ma che non avrebbero dovuto occupare. Lo fa però senza un’idea dietro, senza una revisione filosofica o ecclesiastica di quella mitologia (come faceva Scorsese che affermava che è il sacrificio finale a dare senso a tutto il mito cristologico) con la sola ambizione di esaltare il ruolo di una donna a danno di quello degli uomini.

Tanto è il desiderio di portare la storia di Gesù sul terreno del realismo che Maria Maddalena dipinge gli apostoli in attesa di una magia più che di un miracolo, li ritrae come dei boccaloni illusi che credono al regno dei cieli come un grande effetto speciale che deve materializzarsi da un momento all’altro pronunciando le parole magiche. Solo la protagonista, chiaramente, sembra sommessamente aver capito di più. Ma siamo sempre dalle parti dell’assurda volontà di riabilitare non certo una figura storica ma un mito che esiste solo per simboleggiare il peccato redento, levandogli proprio quella caratteristica senza affermare qualcosa di serio sulla ragione per cui farlo.

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