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16.5.18

The House That Jack Built (id., 2018)
di Lars Von Trier

FUORI CONCORSO
FESTIVAL DI CANNES
 
Di registi in crisi, con poche idee e poca voglia di fare film se ne sono visti tantissimi nella storia del cinema. Periodi bui non all’altezza dei fasti, crisi creative e gorghi di depressione non sono nuovi e ci si è sempre passati sopra con affetto in virtù dei film andati. Ma The House That Jack Built commette l’unico vero crimine imperdonabile essere così apologetico verso la propria stessa crisi creativa da risultare oltre che noioso, anche infantile.

Nella storia di un serial killer che uccide le sue vittime senza nessun timore della legge o di essere catturato e poi le congela e impaglia, le fotografa in quadretti kitsch e cerca di fare dell’arte dai suoi omicidi, c’è la più scontata delle metafore dell’artista, costretto a lavorare con cadaveri (gli attori), in perenne dolore da creazione e incapace di vivere senza fare arte/uccidere. La coincidenza del verbo shoot che significa sparare/riprende immagini poi non la si cita nemmeno per raggiunti limiti di ripetizione.

Biasima se stesso Von Trier, killer senza personalità, incapace di godere del proprio lavoro, condannato a qualcosa che vive con colpa e insoddisfazione, ma in realtà si giustifica. Tramite l’alter ego Matt Dillon si dipinge come tormentato creativo, affascinante artista dall’animo complesso, destinato a soffrire nel fare la sua arte. Fuoricampo conversa con qualcuno la cui identità scopriremo solo alla fine e questi sembra muovergli le accuse che spesso gli hanno mosso i critici da cui si smarca con finta devozione. Anche qui la fantasia e la creatività sono davvero a zero, anche in questo ennesimo facile parallelo che il film tira, le possibilità di andare un po’ più in là della similitudine diretta sono fuori discussione.

A condire il tutto c’è la grande efferatezza degli omicidi, le immagini shockanti (o almeno tali per un pubblico digiuno di horror moderni) e le provocazioni più tipiche. Il protagonista porta la famigliola al parco e all’improvviso dà la caccia a moglie e figli, lo vediamo sparare e far saltare teste ed arti ai bambini poi imbalsamarli male, per metterne in risalto la componente macabra e difficile da guardare. Sarebbe fantastico in un horror, sarebbe stupendo in un film che sappia dargli un senso, sarebbe disturbante in uno in cui l’abiezione morale sia la cifra di tutto o anche solo qualcosa che il regista stesso guarda con onesto orrore ma è triste e puerile in quest’opera che cerca in tutti i modi di farsi notare, di attirare attenzioni se non con la qualità almeno con la quantità.
E se qualcuno avesse ancora dubbi sul parallelo tra protagonista e autore arriverà un montaggio di scene efferate da vecchi film di Von Trier nel momento in cui si parla di violenza a fugarli definitivamente.

C’è un tale bisogno di narcisismo, una tale ricerca dell’attenzione, del centro della scena e una maniera così diretta e smaccata di inseguirli che The House That Jack Built si posiziona vicino a Nymphomaniac ma anni luce dai film del periodo migliore di questo regista, quando la sua consueta furbizia serviva sia il proprio ego che la testa degli spettatori. Lars Von Trier vuole piacere così tanto da infilare nel film anche immagini del Terzo Reich giudicate aspramente a parole, così che nessuno possa fraintendere e lui possa svincolarsi dalle stupide accuse di nazismo che gli furono mosse per una battuta cretina.

Il problema insomma non è certo la violenza, né che il regista parli di sé (tutti i film migliori in qualche modo lo fanno), ma che dietro ciò non ci sia quella capacità di andare così a fondo e toccare corde così intime e complesse da poter risuonare anche dentro chi regista o artista non è e quella storia la sta solo guardando, ritrovandoci sorprendentemente i propri fantasmi. The House That Jack Built è però così superficiale che solo Von Trier stesso può godere di questo paragone e immedesimarsi. E che questo accada per due ore e mezzo, lungo le quali ripete sempre le medesime argomentazioni per giustificare sé e la propria crisi, è non solo artisticamente ma umanamente inaccettabile per lo spettatore.

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