Il calcio nella cultura italiana è così ingombrante che è facile pensare davanti a Il Campione che si tratti di un mancato film sul calcio. Nella trama infatti le dinamiche legate allo sport sono presenti ma secondarie, la storia è quella di un allievo e un professore che sviluppano un rapporto quasi padre-figlio, l’uno cambia l’altro e viceversa. Il fatto che tutto avvenga nell’ambito del calcio professionistico, che sia girato con grandissima perizia, precisione, poche falsità (l’unica sono i giocatori, tutti inventati) e tantissima credibilità, sembra far pensare che sarebbe stato meglio allora se lo sport fosse stato centrale. Invece no. Vedendo Il Campione è subito chiaro che tutto questo impegno per rendere fede allo sfondo della vicenda non è buttato, anzi è quello che la rende valevole e la sorregge.
Quella che rimane una storia molto semplice e dallo svolgimento canonico con un’impalcatura così solida diventa plausibile, concreta, efficace.
La piccola rivoluzione di Il Campione è quella di essere un film con aspirazioni di scrittura moderate e tutte totalmente raggiunte, ma con obiettivi di messa in scena e produttivi altissimi, anch’essi raggiunti da Groenlandia (la società di Matteo Rovere e Sydney Sibilia). È cinema di livello medio all’americana (gran lavoro di produzione, scrittura convenzionale, interpretazioni cruciali) in cui la macchina è importantissima, più dei singoli. Solo uno sforzo di gruppo ben coordinato poteva infatti dar vita ad un film così solido che eleva la sua semplicità a universalità e consente alla sceneggiatura di Giulia Steigerwalt (ancora una volta precisa, asciutta, molto divertente e consapevole di cosa serva per arrivare all’obiettivo) di sposarsi perfettamente con il lavoro di Leonardo D’Agostini sulla regia.
Non tutto è impeccabile nel film, sia chiaro, ma dopo una prima scena (al centro commerciale) in cui l’azione proprio non funziona, il resto di Il Campione fa di tutto per rimontare con sempre maggiore convinzione, schiacciando i piccoli problemi con una grandissima fluidità.
Soprattutto Il Campione ha la caratteristica vincente di non sbagliare mai i momenti cruciali. La scelta del professore da parte della società sportiva, che crede che l’unica maniera per raddrizzare il suo campione scapestrato sia di costringerlo ad una formazione scolastica che sia anche umana, ha il passo giusto e il ritmo che nasconde già il trionfalismo che appartiene al genere. Le parti di ascesa pure funzionano, come funziona benissimo l’espediente tramite il quale il professore (Accorsi) capisce come lavorare sull’apprendimento e quindi il miglioramento dell’allievo (Carpenzano, che pare nato per questa parte). Funziona la crisi alla fine del secondo atto, senza che suoni fasulla, e infine funzionerà il finale, con un passo indietro rispetto al mito dell’ascesa degno di Rocky.
Rimane solo un po’ di amaro in bocca per una parte con i vecchi amici del quartiere che ancorano il campione al basso e ne fomentano il lato ingestibile, una che pare uscita da Spike Lee assieme alla sua inquadratura-firma (il protagonista sul carrello assieme alla videocamera guarda nell’obiettivo mentre il resto si muove intorno a lui). Gli amici sono parte del problema, sono la vecchia identità che il campione deve lasciarsi alle spalle, non sono formati come era lui, non hanno responsabilità come lui ha ora, non hanno niente da perdere e tutto da scroccare. Eppure sono anche la sua identità più intima.
Questo è molto poco esplorato anche se porta all’esito più “nuovo” per il panorama italiano. La storia di Il Campione infatti non è quella di qualcuno che si ricongiunge con il proprio territorio ma di una persona che trova la forza di staccarsene (controvoglia) e trovare una nuova identità, come accade nel mondo dello sport moderno, altrove.
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