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20.7.19

Skate Kitchen (id., 2018)
di Crystal Moselle

Che Crystal Moselle viene dal documentario Skate Kitchen se lo porta tatuato addosso come un titolo di merito. È un film di finzione ma cerca di mascherarsi da documentario quando può, quando all’inizio ancora non ha un intreccio da portare avanti ma riprende una gang di ragazze skater da vicinissimo. Ed è quello il suo grande pregio, mettere in mostra un’umanità diversa che interagisce diversamente, parla diversamente e vive diversamente dalle molte ragazze visto al cinema, e che proprio per questo suona subito autentica.

Con tutta questa autenticità Skate Kitchen dalla seconda metà inizia ad imbastire anche una trama (un po’ tardi purtroppo), fatta di questioni molto semplici ed ordinarie, difficoltà a relazionarsi, esprimere i propri sentimenti, trovare il proprio posto. Per farlo attinge ai classici del genere (Kids per lo stile rimane un punto di riferimento impossibile da fuggire) e un po' ai film di Andrea Arnold (ma la sua capacità di essere contemporaneamente dentro la storia e fuori da essa, vicina ai personaggi tenendo la giusta distanza è irraggiungibile). Skate Kitchen ha quindi l’impressione di immediatezza e i volti da Kids unita a quel senso di vita allo sbaraglio di American Honey, senza però la sua statura monumentale e paesaggistica, è più un vagabondaggio di quartiere invece che un dominio delle badlands.

A puntellare discorsi e problemi ci sono le domande basilari dell’essere adolescenti, c’è la ribellione da quartiere e in maniera molto delicata anche una certa incertezza sessuale. Purtroppo i momenti più costruiti e necessari sono anche quelli recitati peggio. Non tutti i protagonisti sono attori, molti sono facce da skater, il che è un grande pregio che tuttavia Crystal Moselle non riesce sempre ad irreggimentare quando è necessario recitare per davvero, creando una frazione evidente tra le parti improvvisate e quelle costruite anche quando non dovrebbe esserci.

E più avanza più Skate Kitchen mostra di non avere propellente per durare un’ora e quarantacinque minuti, passa decisamente troppo tempo nel creare il mondo in cui è ambientata la storia nella prima parte, così quando poi ha qualcosa da raccontare ci arriva spompato. Era il difetto che aveva anche il suo precedente film, il bel documentario Wolfpack, ottimo nel raccontare e impostare la stranissima storia ma più debole nel portarla avanti. È un gran peccato che abbia voluto procedere a compartimenti stagni, separando così nettamente set-up da intreccio, fonderle avrebbe forse dato ad un film, che rimane molto buono e promettente, il guizzo che merita.

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