La personalità è tutto per un wrestler, come lo è distinguersi e rimanere impressi nella memoria del pubblico. Per questo Una famiglia al tappeto, film che racconta la storia della wrestler Paige, è anche l’occasione perfetta per l’elogio della diversità. Ammorbidendo molto il tipico svolgimento del cinema sportivo Paige passa dal wrestling familiare (letteralmente, la famiglia gestiva una lega locale) a quello professionale dove si scontra con biondine e modelle quando lei è una dark con piercing sulla bocca. Non essere come le altre sembra renderla una diversa ed emarginata ma in un incredibile acquietamento di ogni contraddizione si scoprirà che era lei ad avere un pregiudizio e in fondo essere diversi non conta niente, non è né bene né male. Mah...
Ad ogni modo il wrestling è uno spettacolo familiare, che si fa portatore di due cose: sani valori americani di fatica, fedeltà, coerenza e amicizia, e prese volanti saltando dall’angolo delle corde. Questa produzione in cui sono coinvolti i WWE Studios, ma che va ben al di là dei film solitamente prodotti da quegli studios, allarga tutto questo. La famiglia di Paige infatti è la cosa migliore e l’esaltazione dei valori del focolare, dell’amicizia e della rettitudine tipica del wrestling è così ben portata che quasi non si vede la mano della committenza.
Una Famiglia al Tappeto è proprio realizzato con intelligenza e nessuna voglia di giocare in difesa. Solo la scelta di Lena Headey, che ha attaccata a sé il personaggio della nobile altera, per un ruolo di madre wrestler coatta, popolana che si commuove sempre è un scelta audace e vincente. Mettergli accanto Nick Frost con taglio mohicano poi completa la torta.
Ma Una famiglia al tappeto è anche un film che inizia con un montaggio di mosse di The Rock e che lo prevede nel ruolo di se stesso. Appartiene cioè al genere di film “con un mito”, quelli in cui qualcuno sogna di diventare come qualcuno di famoso (spesso è con musicisti più raramente con sportivi) nello stile di Sognando Beckham. E l’obiettivo evidentemente è la disciplina, l’esaltazione proprio della macchina-wrestling attraverso le peripezie di una famiglia che sono stranamente ben raccontate. Il regno della banalità che è questo genere di film qui invece diventa un racconto piacevole a acuto, non eccezionale certo ma scorrevole e mai tedioso.
Il raggiungimento dei propri sogni, l’allenamento (con un montaggio stranamente blando), i sacrifici e il sostegno dei cari sono quanto di più abusato e zuccheroso ci sia, ma è anche indubbio che Stephen Merchant, da bravo regista-prestigiatore, sa cosa andare a sfrugugliare per distrarre lo spettatore dalla melassa e puntare il suo sguardo su ciò che conta.
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