La storia per filo e per segno. Alex Gibney è un alieno, un documentarista, fortissimo, sempre pieno di lavoro, uomo da un paio di film l’anno abile come pochi che lavora seguendo una scuola che pare sepolta, quella del documentario classico in stile Errol Morris, che ricostruisce maniacalmente, che si fonda sulle interviste e sulle teste parlanti e solo ogni tanto osa introdurre brevi inserti filmati ex novo (non vere ricostruzioni ma più animazioni o dettagli che aiutino la comprensione). Il fine di Gibney insomma è davvero illustrare la realtà e solo secondariamente leggerla, l’opposto del documentario moderno che invece adotta tecniche e linguaggio del cinema di finzione per leggere i fatti.
Citizen K passa in rassegna la storia della Russia moderna tramite la storia di Mikhail Khodorkovsky un ex oligarca, uno dei 7 originali, che ha passato dieci anni in carcere nel suo paese perché si era opposto a Putin e perché, a differenza di altri, non è mai fuggito dalla Russia (“Non valuto la mia vita più importante della mia dignità”). Fu scarcerato assieme ad altri prigionieri come parte dei gesti di distensione in occasione delle olimpiadi di Sochi e adesso, da Londra, guida una società che fa pressione per il cambiamento politico in Russia. Per rovesciare Putin che proprio lui contribuì a mettere in quella posizione dopo la fine di Eltsin, per evitare il ritorno del comunismo.
La ricostruzione è ricca e precisa, appassionante nell’incalzare di fatti e nella minuzia delle immagini che Gibney trova, le foto e i video tra il ridicolo e lo stupefacente. Ancora una volta Citizen K è il manuale di come si racconta qualcosa, diversamente dal solito è privo di livelli di lettura ulteriori rispetto al più immediato, quello dei fatti. Un problema non da poco quando nel finale il film continua ad indugiare per 30 minuti sul Khodorkovsky per trovare altri aspetti che non arrivano, per trovare una prospettiva più ampia del presente che non trova.
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