Vedendo questo secondo capitolo di IT che coinvolge i protagonisti nell’età adulta e dunque interpretati da attori che già conosciamo e abbiamo visto recitare altrove, è finalmente chiaro quanto lavoro Andy Muschietti abbia fatto sulla recitazione. Impressionava il cast di ragazzi del primo ma qui, davanti a James McAvoy o Jessica Chastain o ancora a Bill Hader (per la prima volta così sfaccettato, misurato e preciso), capiamo che sugli attori è andato lo sforzo principale. E che sforzo!
L’impressione è che tutti abbiano avuto più tempo del solito per lavorare sui personaggi, sulle loro contraddizioni, sulle posture, sulle camminate e sulle singole scene. Sia le transizioni tra scena e scena, sia le interazioni sono il campo in cui IT - Capitolo Due vuole giocare la sua partita, perché lì è fortissimo. Questo fa purtroppo sì che trascuri il resto.
La seconda e ultima parte dell’adattamento da Stephen King è un film un po’ più schematico del primo, decisamente più controllato, i cui momenti migliori sono prelevati di peso dal capitolo uno (vediamo molti inserti ambientati 25 anni prima) o ereditati da esso (è il caso di come viene tirata in ballo più volte la poesia scritta da Ben). I personaggi sono seguiti separatamente e poi insieme per dipartire di nuovo in seguito, uno alla volta ci vengono mostrati nelle loro avventure che ricalcano ossessioni e paure individuali, poi chiuderanno tutti insieme. Non ci sono molte sorprese e questa schematizzazione allunga un brodo che poteva essere cinematograficamente più succinto e asciutto (dire e mostrare i medesimi eventi in meno tempo).
In un film che chiude la storia, che dunque non ha il fascino del mistero ma l’incombenza di risolverlo rimanendo all’altezza di quel fascino, forse erano necessarie trovate narrative più efficaci.
Di certo, come il precedente film, IT conferma la sua prospettiva quasi unica (al cinema) cioè essere un racconto di paura che parla della paura, che racconta la necessità di battersi contro la paura, che la descrive come l’origine del male e non (come avviene quasi sempre altrove) come un suo prodotto. L’idea è la parte più forte perché attiva, programmatica e battagliera: il male esiste nelle persone che hanno paura ed è alimentato da essa. Solo che Muschietti affianca matematicamente un alleggerimento comico ad ogni momento spaventoso o teso e annuncia sempre per tempo l’arrivo di una minaccia. Il suo non vuole e non deve essere un vero horror, non deve tenere lo spettatore costantemente impaurito o in eccessiva tensione ma semmai smaltirla il più possibile ogni volta che arriva. La ragion è che c’è qualcos’altro che è più importante raccontare: i personaggi, il loro percorso, il male di Derry.
Ciò non leva che poi le singole scene spaventose siano molto ben concepite e molto ben disegnate (anche perché la base del racconto è ovviamente ottima in questo senso), addirittura con un comparto di effetti sonori giustissimo, prelevati dai film Blumhouse che in questo sono maestri.
Purtroppo la chiusa della storia soffre eccessivamente di un adattamento sbrigativo. Invece che costruire con calma il film corre, perde tempo là dove non dovrebbe e si affretta quando servirebbe rallentare, ricorrendo a stratagemmi e soluzioni abbastanza abusate. In parole povere fa accadere gli eventi come sempre accadono nei film, fa dire quel che sempre si dice, invece di far sfoggio di personalità e originalità come nel film precedente. Questo di certo non abbatte il lavoro ottimo che Muschietti e il cast fanno, ma impedisce al film di essere a livello del precedente, specie considerata la coda eccessivamente lunga.
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