“Le cose sono belle per via di quello che significano” dice Edith Bratt a J.R.R. Tolkien, suo futuro marito, quando questi gli racconta della sua passione per le lingue e per le parole, di come alcune parole abbiano una bellezza in sé, per la loro musicalità. Lei gli oppone che invece queste parole inventate potrebbero essere ancora migliori se indicassero qualcosa di appropriato, una persona, un ruolo o, ha il colpo di genio Tolkien, un luogo.
Secondo Tolkien (il film) questo è il momento cardinale in cui la grande donna dietro al grande uomo lo aiuta a compiere il salto da linguista a romanziere: riempire le lingue con un senso.
È un momento totalmente fuori scala per Tolkien, uno con un’idea forte, con un concetto astratto interessante e che cerca di dire molto su come sia nato e perché sia così particolare il mondo di Il signore degli anelli, opera pionieristica sotto tantissimi punti di vista. È fuori scala non solo perché questo film così mal scritto e diretto non ha minimamente il fiato e la forza per trattare questi argomenti ma anche perché è un piccolo caso isolato, meno di 5 minuti su due ore di film che invece hanno ben altre intenzioni.
L’infanzia difficile, il rapporto con la madre e le sue storie fantastiche, poi la fatica all’università e la costituzione di una sua “compagnia” di amici fidati. Infine: l’amore. La storia di J.R.R. Tolkien nel film del finlandese Dome Karukoski è una trama sentimentale con piccoli accenni al trauma della guerra che viene di tanto in tanto puntellata di premonizioni delle sue opere a venire (giusto per non dimenticarci chi sia la persona di cui parliamo e perché esista un film su di lui). Ci sono storie di draghi, tentativi di andare a vedere I Nibelunghi (grande ispirazione per la trilogia dell’anello) e poi discussioni sulle lingue e sulle mitologie. Come nelle immagini del film sono fogli nello sfondo attaccati al muro, poco più che arredamento in quella che è una storiella d’amore in costume. Nulla di più.
Quanto peggio poi il film da un certo punto in poi, cioè poco dopo la propria metà, smette di prevedere eventi rilevanti e comincia a rimestare nel medesimo brodo. Non porta avanti i personaggi, porta blandamente avanti la storia e medita su se stesso, tutto un guardar fitto in avanti e tirare tende: una tragedia!
Come se fosse obbligatorio arrivare per forza a due ore di durata Tolkien finisce quel che deve dire molto prima della sua fine e si trascina stancamente dimostrando di non avere alcuna intenzione di affrontare spirito del tempo, carattere e unicità dell’autore di Il signore degli anelli, di non avere interesse nemmeno in come davvero sia nata e si sia sviluppata un’opera letteraria così peculiare e trova invece più interessante occuparsi della morte di un amico, del senso dell’amicizia e della pubblicazione dell’opera dell’amico di Tolkien. Preferisce insomma parlarci dei sentimenti del suo protagonista (ovviamente tutti positivi) invece che di chi fosse, cosa lo abbia reso grande e perché valga la pena raccontare la sua storia.
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