I personaggi ci sono tutti ma lo spirito che animava Frozen è annacquato. Questo sequel che prende le mosse dal passato, dalla storia di Anna e Elsa per continuare quel percorso di scoperta della loro identità iniziato nel precedente, non ha il furore rivoluzionario né l’attenzione maniacale alla storia.
Inizia molto bene con quell’idea tipica pixariana che il racconto orale sia sempre fallace, sia portatore di menzogne e solo vedere gli eventi da un altro punto di vista consenta di accedere alla verità, che è la grande metafora del cinema: il punto di vista è quello che crea senso. Nella Pixar questo avviene sempre tramite video, qui invece è fatto bene usando la memoria dell’acqua e statue di ghiaccio che ricordano per posa drammaturgica e potere evocativo quelle che popolano The Witness di Jonathan Blow.
Se dunque Elsa prosegue il proprio percorso alla scoperta di sé, il film prosegue l’idea di annullamento del gender come caratteristica dei personaggi. I maschi non devono comportarsi per forza da tali (tranne i militari) e le donne non devono aderire all’idea stereotipica delle donne. Così i primi stanno in disparte, non prendono quasi mai parte all’azione, le seconde decidono, si battono e lottano avendo nelle mani il destino del regno in un tripudio di cambi d’abito che sanciscono una nuova personalità e un nuovo status acquisito (con ancora più audacia addirittura un personaggio cruciale alla fine avrà proprio cambiato tutto il proprio character design).
L’eroismo maschile è smontato a favore di uno autonomo femminile. L’obiettivo è sempre encomiabile ma stavolta prende la piega di un film raffazzonato e molto meno godibile, meno centrato con le caratterizzazioni e meno avvincente nella sua trama, prevedibile esattamente là dove la precedente non lo era.
Lo si capisce sia da come il film schematizza i ruoli e le avventure dei singoli personaggi, che dalla maniera in cui non sono approfonditi tutti coloro i quali non sono Elsa (ridicola l’evoluzione di Olaf, sempre peggiore, sempre più didascalico con una scena comica a sé dedicata che non risolleva niente) che infine dalle musiche, presentissime e decisive. Non è solo che non hanno l’incisività delle precedenti (può capitare) ma creano momenti di difficile comprensione. Kristoff, nonostante la sua dichiarata marginalità, ha una canzone a sé dedicata stavolta ma è una power ballad anni ‘80 con immagini che sembrano la presa in giro di un videoclip brutto anni ‘80. Eppure è una canzone seria e non è mai chiaro quanto tutto quel che vediamo sia ironico o (terribile) serio. Quando durante la canzone si vedono anche pezzi del primo film sembra una versione da poco di There’s No Easy Way Out in Rocky IV.
A salvare tutto doveva allora essere la grande prospettiva, le questioni regali, il prosieguo della storia d’amore di Anna e i nuovi popoli scoperti. Tuttavia sono le parti più deboli della trama, le più generiche, trame come le si potrebbe incontrare ovunque, giganti di roccia pretestuosi che hanno ben poco dello spirito di Frozen. È invece la parte nordica, fatta di un cavallo d’acqua bellissimo e di una revisione dei presupposti di alcuni personaggi quella che dovrebbe reggere il film ma Frozen 2 sembra preferirigli l’altra e punta lo stretto indispensabile su quegli ambienti e quell’avventura lì.
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