C’è in Puntasacra esattamente lo stesso metodo documentaristico di Gianfranco Rosi, cioè il ritratto di una comunità identificata da un luogo tramite in un mosaico di voci differenti riprese nella loro quotidianità. Francesca Mazzoleni cerca di scomparire per riprendere eventi, feste, discussioni di politica, discussioni familiari e la quotidianità della zona dell’Idroscalo, Ostia Nuova. Il risultato ha il medesimo feeling fluido e invisibile dei documentari di Rosi e la medesima capacità di riprendere l’ordinario montandolo insieme per suggerire qualcosa di superiore, con in più una sua vocazione mistica particolare evocata dalla fotografia di Emanuele Pasquet, che punta sulla conformazione fisica dell’area in cui sorge il villaggio al centro del film, una specie di punta alla fine di tutto, fiaccata da vento e onde, per giocare con onde e tramonti in modo da suggerire una valenza eccezionale a quel posizionamento. Come fosse il terminale di un mondo intero.
Ma a Francesca Mazzoleni interessa qualcosa di ancora più specifico. All’interno della comunità dell’idroscalo il documentario guarda e segue più che altro le donne, come se ci fosse una netta divisione interna a quel villaggio, come se effettivamente le donne vivessero un’altra dimensione, una molto attiva chiaramente, piena di desideri (le più giovani), di idee, attivismo, compiti e obblighi (le più grandi). Solo un rapper locale che si autoproduce, scrive, immagina una maniera per collegare la sua origine cilena con la sua vita romana tramite la musica, è ammesso dal film nel circolo dei protagonisti da guardare.
Questa scelta piega tutto il documentario. Puntasacra parte da un posto, dalle sue contraddizioni e dai molti problemi della sua comunità per raccontare un gruppo di donne che si batte con grandi o piccole ingenuità, con spirito e fiducia nel domani. A differenza di Rosi e a differenza della parte, lentamente diventano gli individui ad essere caratterizzati dal luogo che abitano e non viceversa. Eppure lungo il film non abbiamo mai l’impressione che aver vissuto lì abbia davvero influito su quello che queste persone che sono ma solo sulle peripezie e le difficoltà che vivono. L’Idroscalo non è un luogo che attira una certa umanità o uno che plasma una certa umanità, ma un posto dimenticato e difficile da vivere. In questo senso il documentario sembra più cronaca che cinema. Racconto di reali difficoltà e non rappresentazione della nostra umanità dentro altre persone.
Questa scelta finisce così per sminuire gli intenti e affossare il risultato. Perché la comunità femminile locale per come è ripresa da Francesca Mazzoleni non porta molto al documentario. La gentilezza estrema del film nei confronti delle loro storie ordinarie, sebbene traslate in una dimensione quasi mistica dalla fotografia, non gli fa un buon servizio e anzi fa passare in secondo piano gli elementi più interessanti come il rapporto tra ambiente e persone, tra eredità simbolica di quei posti (rievocata nel film dai discorsi su Pasolini) e attualità problematica.
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